
L’ultima riunione del board di Bank of Japan rischia di passare alla storia come lo spartiacque tra la politica monetaria ultra-accomodante, perpetrata nella terra del Sol Levante da ormai un decennio, e l’inizio di una nuova era.
Il Governatore Haruhiko Kuroda, nel corso della recente riunione del board di BoJ ha infatti annunciato l’ampliamento della banda di oscillazione di rendimento dei Titoli di Stato a 10 anni, da (-0.25% – 0.25%) a (+0.5% – 0.5%).
Non, dunque, un aumento del tasso di riferimento, che resta invariato, su territorio negativo, a -0,1%, ma una mossa più di fino, che il mercato ha letto – come detto – come un primo passo verso la normalizzazione della politica monetaria nipponica (Nikkei: -2.50%), nonostante Kuroda l’abbia etichettata più semplicemente come “Una decisione atta a migliorare il funzionamento del mercato”.
Del resto, Kuroda, che nel prossimo febbraio concluderà il suo incarico decennale alla guida di BoJ, ci ha abituati ad azioni non convenzionali, che hanno spesso finito per influenzare la politica monetaria del mondo intero, basti pensare al Quantitative easing del 2013, successivamente “copiato” da Yellen e Draghi, il quale ha contribuito ad arginare la deflazione cronica di cui soffriva il Paese, l’introduzione di tassi di interesse a breve termine negativi ed il controllo della curva dei rendimenti, entrambi, questi ultimi, lanciati nel 2016.
“Non abbiamo assolutamente alcuna intenzione di aumentare i tassi di interesse o inasprire la politica monetaria” ha ribadito Kuroda, sul quale negli ultimi mesi, complice l’ampliarsi del divario dei tassi tra Stati Uniti e Giappone, si erano fiondati gli speculatori esteri, pronti a scommettere che, alla fine, egli sarebbe stato costretto ad innalzare almeno un po’ il costo del denaro.
Del resto, questo intestardirsi nel non voler seguire le altre banche centrali nelle strette, ha portato lo yen ai minimi rispetto al dollaro da trent’anni, pesando non poco su aziende e consumatori giapponesi, costretti pagare di più l’energia e, in generale, tutti i beni importati.
È pur vero che Kuroda, a differenza dei suoi omologhi occidentali, non ha un tasso di inflazione a doppia cifra a cui fa fronte: per un Paese che ha combattuto per decenni con lo spauracchio della deflazione, un tasso di inflazione al 3.7% (stima di ottobre), pur al di sopra del target del 2%, non può destare preoccupazione.
A maggior ragione se, come indicano le stime, dovrebbe rintracciare al 2% già nel prossimo anno.
Secondo gli osservatori più attenti, Kuroda avrebbe minuziosamente scelto il momento di questa mossa, la quale è coincisa con il rallentamento del ritmo degli aumenti dei tassi annunciato appena pochi giorni fa da Powell e Lagarde, prevedendo una piccola stretta, che non danneggerebbe la crescita economica del Paese, in uno dei prossimi due meeting, gli ultimi della sua decennale esperienza alla guida della massima istituzione di politica monetaria del Sol Levante.
In altre parole, egli starebbe preparando il terreno per il suo successore, il quale avrà davanti a sé un compito tutt’altro che agevole: normalizzare la politica monetaria del Giappone.
Per tale ruolo sembra essere una corsa a due tra l’attuale Vice-Governatore Masayoshi Amamiya e l’ex Vice-Governatore Hiroshi Nakaso.
Sebbene siano stati entrambi fautori delle attuali politiche monetarie espansive, la scelta di Nakaso, che in un recente libro ha parlato dei limiti di tali misure, segnerebbe un allontanamento dalla cosiddetta Abenomics, il piano di politiche espansive lanciato dall’ex Presidente Shinzo Abe, colui il quale scelse Kuroda alla guida di BoJ nel lontano 2013.
Come scrissi in un articolo diversi anni fa, era il 2015, il Quantitative easing non è la panacea: il prolungamento della politica ultra-accomodante da parte di BoJ ha portato i Governi giapponesi a indebitarsi con eccessiva disinvoltura, fino al 260% del PIL.
Dopo due budget extra quest’anno per combattere gli effetti del caro energia, il Governo presieduto da Fumio Kishida sta tentando di aggiornare l’arsenale militare del Paese, complici i rapporti non troppo idilliaci con la Cina, per il quale occorrono 43 trilioni di yen (325 miliardi di dollari.)
È lecito pensare che tali risorse verranno attinte ancora dal mercato obbligazionario.
Le banche giapponesi, inoltre, che hanno per lungo tempo lamentato il perdurare dei tassi zero, nocivi per i loro profitti, sono anch’esse preoccupate di questa imminente ma ormai inevitabile inversione di tendenza: temono forti perdite sulle loro partecipazioni nei Titoli di Stato.
Un inasprimento prolungato, inoltre, porterebbe ad un ritorno in patria di più di 3 trilioni di dollari investiti in azioni e obbligazioni estere: banche e fondi pensione potrebbero disfarsi degli investimenti esteri, alimentando il contagio tra le attività, comprese quelle nei mercati emergenti.
La metà di questo denaro sarebbe stato riversato negli Stati Uniti: un incremento dei tassi giapponese porterebbe ad un rafforzamento dello yen sul dollaro, con risvolti negativi per le aziende nipponiche, non scordiamo infatti che il Giappone è da sempre un esportatore netto.
Insomma, chiunque raccoglierà l’eredità di Kuroda dovrà dimostrare grande abilità nel fronteggiare una situazione che non ha precedenti nella storia della politica monetaria, anche stavolta spetterà a BoJ il ruolo di precorritrice.
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