Il dollaro forte, l’economia cinese che stenta a ripartire e il prezzo del petrolio in aumento.
Sono queste le tre variabili che stanno influenzando le performance delle economie asiatiche, da quelle emergenti del sud-est asiatico fino al Giappone, le cui rispettive valute stanno subendo un forte deprezzamento rispetto al biglietto verde.
Sì, perché benché la spirale inflazionistica sia giunta anche in Oriente, lo ha fatto con un timing e un tenore diverso rispetto a quanto osservato negli Stati Uniti e in Europa: in ritardo e a ritmi meno sostenuti, senza contare che, almeno per quanto riguarda gli emergenti, le banche centrali hanno tendenzialmente un target meno stringente rispetto al “dogma occidentale” del 2%, mentre Bank of Japan, che ha combattuto con esiti alterni decenni di deflazione, aveva visto di buon occhio un discostamento più accentuato verso l’alto del costo della vita.
Il crollo delle valute emergenti.
I sorprendenti dati sulla crescita economica e salariale statunitense hanno spinto la Federal Reserve a non tentennare nella lotta all’inflazione – Jerome Powell nelle ultime riunioni del board ha ribadito che gli alti tassi sono qui per restare – determinando il logico deflusso di capitali da Oriente ad Occidente: del resto, che senso ha mantenere i propri investimenti in aree geografiche meno affidabili se si possono ottenere ottimi rendimenti spostando il proprio denaro verso la prima economia del mondo?
Ecco spiegate le vendite massive di valute emergenti asiatiche per acquistare dollari.
Dunque, da un lato gli alti tassi statunitensi, dall’altro la scarsa necessità di inseguire la Fed nella corsa ai rialzi, provando, piuttosto, a beneficiare di un prevedibile boost lato esportazioni derivante dal deprezzamento delle rispettive valute.
Questo se la crescita cinese, economia catalizzante per l’area, non si fosse arenata: non basta che i prodotti diventino più a buon mercato se il tuo principale cliente smette di acquistarli.
A quel punto, l’unica cosa che se ne ricava è un impoverimento del potere di acquisto dei cittadini, a maggior ragione se, complici i tagli alle forniture di Arabia Saudita e Russia, oltre alle crescenti tensioni in Medio Oriente, il prezzo del petrolio, che ricordiamolo è quotato in dollari, torna a spingersi sopra i 90 $ al barile per la prima volta da novembre 2022.
Tutto ciò riporta a un tema già molto caro ai Brics, l’abbiamo visto in un precedente articolo, quello di provare a limitare la dipendenza dal dollaro, “difendendo” le rispettive valute locali e dando priorità al loro utilizzo.
Sul primo punto è possibile portare l’esempio della Bank Indonesia, la quale a sorpresa, nonostante un’inflazione stimata al 2,28%, dunque ad un livello moderato tenendo conto del target range “2%-4%”, lo scorso giovedì ha alzato il tasso di interesse di riferimento di 25 punti base portandolo al 6%, dopo averlo mantenuto invariato per otto riunioni consecutive. Non solo, Darmin Nasution, Governatore ad interim di Bank Indonesia, ha annunciato la volontà di sostenere la rupia indonesiana intervenendo sul mercato dei cambi.
Il tema inflazione desta particolare preoccupazione per Singapore e le Filippine, con la Banca centrale di quest’ultima, Bangko Sentral ng Pilipinas (BSP) costretta ad una riunione di emergenza che ha portato anch’essa ad una stretta di un quarto di punto dopo che l’inflazione era schizzata oltre il 6% e, per bocca del Governatore Eli Remolona, dettasi pronta a ulteriori interventi se la situazione dovesse acuirsi.
Guardando alla Corea del Sud, c’è da tener conto anche del pesante debito privato, dove uno o più aumenti dei tassi, se da un lato avrebbero l’effetto di disinnescare la sua crescita, dall’altro potrebbero portare molte famiglie con mutui a tasso variabile nella condizione di non essere più in grado di ripagare quanto ottenuto in prestito.
Sul secondo punto, invece, ossia sul dare priorità all’utilizzo delle valute locali, si può citare la Malesia, il cui Primo ministro, Anwar Ibrahim, ha dichiarato che sarà più attiva e aggressiva nell’utilizzo del ringgit nelle transazioni internazionali con i suoi principali partner commerciali: Indonesia, Tailandia e Cina. In particolare, Kuala Lumpur è tra i maggiori Paesi a pagare le difficoltà di Pechino.
Non bastano però i buoni propositi affinché una valuta cominci ad essere maggiormente utilizzata, è necessario contrastarne la volatilità, in modo che chi decide di utilizzarla non debba preoccuparsi dell’andamento del tasso di cambio; si guardi per esempio il baht tailandese, che ad inizio ottobre ha toccato i minimi (37,07) rispetto al dollaro in dieci mesi.
Eppoi c’è il Vietnam, con la banca centrale vietnamita ad essere stata la prima tra le asiatiche, già lo scorso marzo, a invertire la tendenza: l’obiettivo iniziale di Hanoi di incoraggiare i prestiti e l’attività commerciale in un contesto di domanda globale debole per le sue esportazioni si è scontrato con la debolezza del dong e dunque con l’aumento del prezzo delle materie prime che ha necessità di importare per la propria industria manifatturiera. Non scordiamo infatti che il Vietnam sta via via diventando il luogo dove le aziende cinesi e non solo spostano le proprie produzioni per renderle ancora più a buon mercato.
Torniamo al Giappone.
Lo scorso 3 ottobre lo yen giapponese ha toccato un nuovo minimo, scendendo per un attimo oltre quota 150 rispetto al dollaro e raggiungendo il livello più basso dall’ottobre 2022, quando le autorità dovettero intervenire per arginare la caduta.
Negli ultimi mesi, Bank of Japan si è trovata ad affrontare un compito sempre più complesso: combattere contemporaneamente deflazione e inflazione. Con lo yen che si aggira al livello più basso degli ultimi decenni, basti pensare che in virtù di questo la Germania ha sopravanzato il Paese del Sol Levante come terza economia del mondo, aumenta la pressione sul Governatore Ueda affinché faccia qualcosa nel prossimo meeting in programma il 30-31 ottobre, interrompendo il lungo immobilismo che perdura dal suo predecessore Kuroda.
Hai trovato questo articolo interessante?
Difendere le rispettive valute, combattendo l’inflazione ma senza minare la crescita economica, questa la difficile missione che sono chiamati a compiere i banchieri centrali asiatici: saranno all’altezza?
Al di là delle difficoltà descritte in questo articolo, dalla loro ci sono sicuramente bilance dei pagamenti generalmente sane e riserve di valuta estera tali da ammortizzare, almeno nel breve periodo, i deflussi di capitale. Certo, se la Fed dovesse mantenere i tassi in alto troppo a lungo, se Xi non dovesse riuscire a dare nuova linfa alla crescita cinese e se dovessero perdurare le incertezze geopolitiche, è chiaro che qualche scricchiolio potrebbe verificarsi.
In attesa di conoscere gli sviluppi, l’invito, come al solito, è di mettere un like alla pagina Facebook di sostegno al blog o di iscriverti alla newsletter in modo da restare aggiornato sulle future pubblicazioni.
Inoltre, ti consiglio di dare uno sguardo alla sezione del sito relativa alla mia attività di consulente finanziario.
Grazie per la lettura, al prossimo articolo.