
Era il 2001 quando un economista di Goldman Sachs, Jim O’Neill, coniò il termine “BRIC” in un paper che si occupava di analizzare la crescente importanza geopolitica ed economica che Paesi quali Brasile, Russia, India e Cina – da cui l’acronimo – avrebbero assunto da qui a qualche decennio, si ipotizzava entro il 2050.
L’idea di realizzare un asse, un forum, tra questi nuovi aspiranti attori della scena mondiale arrivò più tardi, era il 2009, a cui seguì, un anno dopo, l’invito a partecipare al Sud Africa, che comportò l’aggiunta di una “S” e dunque la creazione dell’acronimo “BRICS”, tutt’ora in uso.
Aspettative vs Realtà.
Quel blocco che secondo alcuni analisti avrebbe potuto nel giro di qualche decennio fare da contraltare al G7, ossia l’organizzazione intergovernativa delle sette maggiori economie del mondo (Canada, Francia, Germania, Italia, Giappone, Regno Unito e Stati Uniti), in realtà subì un forte ridimensionamento negli anni ’10 del 2000, complice le scarse performance fatte registrare dai membri non asiatici.
Sì, perché mentre da un lato Cina e India hanno continuato a far registrare tassi di crescita entusiasmanti, la prima solo adesso sembrerebbe aver arrestato la propria corsa, dall’altro Brasile, Russia e Sud Africa hanno arrancato.
Più in generale, il tempo ha dimostrato quanto possa essere difficile costituire un’organizzazione i cui membri sono piuttosto eterogenei. Oltre che economiche, per dirne una, il reddito pro-capite indiano, il più basso tra i Paesi membri, è circa 1/5 di quello cinese, vi sono differenze evidenti sul piano politico, Cina e Russia sono delle autocrazie, gli altri delle democrazie per quanto perfettibili, nonché, elemento forse ancor più importante, di visione del mondo.
Le ambizioni espansionistiche cinesi.
La Cina vorrebbe ritagliarsi un ruolo egemone sugli altri membri e su tanti altri: la “Nuova via della Seta”, la volontà di ampliare il club dei BRICS, la creazione, partendo proprio da loro, di un “FMI alternativo” denominato CRA (Contingent Reserve Agency) e di una “World Bank” alternativa, la NDB (New Development Bank), sono tutti elementi che fanno parte di una strategia più ampia, quella di diventare il Paese guida di un polo alternativo agli Stati Uniti.
Vi sono però tutta una serie di impedimenti da considerare: innanzitutto l’India, il cui peso economico, politico, tecnologico, oltre che demografico, cresce di anno in anno, si scontra con la Russia ed il suo imperialismo, si scontra con Brasile e Sud Africa, i quali, avrebbero preferito mantenere l’attuale composizione dei BRICS, e dunque il loro ruolo egemone sui rispettivi continenti, America Latina e Africa.
Uso il condizionale perché, nell’ultimo summit dei BRICS, tenutosi lo scorso agosto a Johannesburg, in Sud Africa, summit a cui il Presidente russo Putin ha potuto presenziare solo in videoconferenza – il Sud Africa, essendo membro della Corte Penale Internazionale, sarebbe stato obbligato ad arrestarlo per le note vicende in Ucraina – per la prima volta dal 2010, è stata aperta l’opportunità di nuovi ingressi, nello specifico di Arabia Saudita, Argentina, Egitto, Etiopia, Iran ed Emirati Arabi Uniti, i quali, come annunciato dal Presidente sudafricano, Cyril Ramaphosa, ne diventeranno a tutti gli effetti membri dal 1 gennaio 2024.

Come nel caso del G7, quello dei BRICS è un club, nel senso che non vi sono criteri da rispettare per potervi aderire, si entra solo su invito, con la differenza che, nel primo, i Paesi sono culturalmente, storicamente ed economicamente “vicini”, mentre a legare i secondi è per lo più l’avversione verso gli Stati Uniti.
Gli odiati Stati Uniti.
Non è quindi un caso che il ritorno in auge dei BRICS, di cui finora si ricordavano per lo più i sorrisi dei leader a favore di telecamera, coincida con il ritorno di un sentimento anti-occidentale, spinto dalle tensioni tra Cina e Stati Uniti su Taiwan e dalla guerra in Ucraina.
L’intento mai troppo celato è dar vita ad un’alternativa al dollaro, vero braccio armato degli Stati Uniti, molto più di qualsiasi armamento. Ad oggi, quasi il 60% delle riserve di valuta estera delle Banche Centrali del mondo sono investite in attività denominate in dollari; quasi tutte le materie prime, a cominciare dal petrolio, sono prezzate e regolate in dollari; oltre il 40% delle transazioni internazionali sono denominate e regolate in dollari.
Poiché le transazioni che comportano l’utilizzo del biglietto verde coinvolgono il sistema bancario americano e occidentale, il cosiddetto “SWIFT”, ecco che gli Stati Uniti possono sanzionare, limitando l’accesso alla finanza globale, i Paesi “non allineati”. Ne abbiamo avuto dimostrazione con Iran e Russia.
Una valuta alternativa al dollaro…
L’idea di una valuta alternativa al dollaro è davvero fattibile? E quale dovrebbe essere?
Sebbene il peso dei BRICS nell’economia mondiale, in termini di PIL, sia cresciuto dall’8% del 2001 al 26% attuale, e in essi è notevolmente cresciuto quello della Cina, dal 47% del 2001 al 70% di oggi, per converso, quello dei Paesi del G7 si è ridotto dal 65% del 2001 al 43% attuale, essi faticano ancora ad imporsi.
Il motivo? Oltre all’eterogeneità di cui parlavo prima – Un altro esempio? Cina e Russia sono esportatori netti, gli altri no – c’entra la credibilità, tanto della Nazione guida, la Cina, quanto di tutte le altre.
È chiaro che a Pechino farebbe comodo imporre il suo yuan, ma l’India lo accetterebbe? Ovvio che no, perché New Delhi dovrebbe sottostare alle politiche monetarie di Pechino, a maggior ragione in questa fase di difficoltà per il Dragone?
I Paesi sudamericani e africani hanno finora dimostrato invece una buona predisposizione verso l’espansionismo cinese, accettandone le linee di swap in renminbi, che altro non sono che prestiti concessi da Pechino a condizioni difficile da decifrare.
…o l’esigenza di nuovi pasti gratis?
La sensazione però è che i rispettivi leader siano alla ricerca di “nuovi pasti gratis” che consentano loro di restare al comando, sfuggendo così alle condizionalità sottostanti i prestiti elargiti dal Fondo Monetario Internazionale.
In Sud America peraltro si è anche tornati a parlare di una creazione di una valuta comune, in particolare tra Brasile e Argentina, politicamente vicini in questa fase, ma quale credibilità potrà mai avere un Paese come l’Argentina, più volte finito in bancarotta?
Non si vuole comprendere che il successo di una valuta deriva dal fatto che ci sia qualcuno disposto ad accettarla, e che i flussi di capitali, ciò che determina il tasso di cambio, non possono essere decisi a tavolino, si muovono liberamente!
Infine, ci sarebbe la sempre stuzzicante soluzione legata all’adozione di una criptovaluta, l’abbiamo visto con El Salvador tempo fa, la cui eccessiva volatilità ne ha però già da tempo sancito l’inadeguatezza.
Oltre che ai sei nuovi ingressi, fonti cinesi riferiscono che ci sarebbero altri 40 Paesi interessati a far parte dei BRICS: tutti in fuga dalla realtà? Persino le opinioni pubbliche degli attuali membri sembrano scettiche sul da farsi, perché, oltre ad eterogeneità e credibilità, c’è ancora un altro aspetto, forse ancor più importante dei precedenti, di cui tener conto, e vale tanto per la creazione di un organismo sovranazionale quanto per qualsiasi rapporto umano: la fiducia.
Ed i BRICS non si fidano gli uni degli altri.
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