Il 2024 avrebbe dovuto sancire la normalizzazione della politica monetaria mondiale.
La rincorsa sfrenata per riportare il tasso di inflazione nei rispettivi livelli target, dopo che per mesi la gran parte degli addetti ai lavori, a cominciare dai banchieri centrali, erano rimasti impassibili alla crescita generale del livello dei prezzi osservata nel post Covid, etichettandola come “transitoria”, avrebbe dovuto infatti subire un arresto: Federal Reserve e BCE erano ormai pronte a tagliare più volte i tassi nel corso dell’anno pur di dare nuovo slancio alla ripresa, diradando così le nubi di una recessione imminente.
Questo, almeno, era nelle previsioni degli analisti, le quali, anche per quest’anno, si avviano ad essere del tutto fallaci, tanto che c’è da chiedersi se, più che previsioni, ci si trovi ormai di fronte a “Wishful thinking”.
La verità, infatti, è che tagli finora non ce ne sono stati e, stando alle ultime dichiarazioni di Jerome Powell, chairman della Fed, le probabilità che ce ne siano entro l’anno cominciano ad affievolirsi.
A mio avviso ciò che proprio non va è quel “Siamo dipendenti dai dati”, una frase pronunciata in maniera quasi ossessiva dai banchieri centrali, in particolare da Christine Lagarde, Presidente della BCE, e che denota una certa inconsistenza: chi presiede un’istituzione di politica monetaria ha il compito, anzi, il dovere oserei dire, di incidere sui dati, non lasciarsi trasportare da essi. È ciò che tecnicamente viene definita forward guidance, ne ho già fatto cenno in precedenti articoli.
A parziale loro discolpa va però aggiunto un aspetto tutt’altro che secondario, quello di scontrarsi con una politica fiscale agli antipodi: come si fa a tenere a bada l’inflazione se, come nel caso degli Stati Uniti, il rapporto deficit/PIL viaggia al 7%? E, secondo l’ultimo Fiscal Monitor pubblicato dal Fondo Monetario Internazionale, esso non dovrebbe mai scendere sotto il 6% negli anni a venire.
Mario Draghi, da Presidente della BCE, lo ribadì più volte: affinché la politica monetaria dia i suoi frutti, è necessario un coordinamento con quella fiscale, in altre parole, basta mancette elettorali, si facciano le riforme, si remi tutti nella stessa direzione. Chissà a quanti politici italiani saranno fischiate le orecchie…
Con il Governo americano che continua ad indebitarsi e dunque a stimolare (drogare) la crescita – +2.5% nel 2023 e +2.1% stimata per l’anno in corso – più che un taglio dei tassi, ci sarebbe da attendersi un’ulteriore stretta. E ciò avrebbe un impatto dirompente sull’economia mondiale, soprattutto sugli emergenti, i quali da tempo aspettano uno o più tagli dalla Fed per ridare slancio alle rispettive economie, con le banche centrali locali costrette a loro volta a politiche monetarie restrittive per non importare inflazione.
E la BCE, invece? Il primo taglio da 25 punti previsto a giugno ci sarà? Sembrerebbe proprio di sì.
L’inflazione in Eurozona sembra ormai sotto controllo, molto più che oltreoceano. Inoltre, la crescita economica, a cominciare da quella tedesca, da tempo alle prese con un complesso ripensamento della propria politica industriale, è tutt’altro che esaltante. Una politica monetaria più accomodante darebbe sicuramente respiro al continente, senza contare che, con le elezioni europee alle porte, assesterebbe un bel colpo alle velleità dei partiti populisti e sovranisti, che da sempre costruiscono il proprio consenso su feroci e spesso pretestuose critiche a Bruxelles e Francoforte. Ora, lungi da me asserire che le decisioni prese a Francoforte tengano conto anche dei proclami e delle scempiaggini dei vari Conte, Salvini e rispettivi omologhi sparsi in giro per il continente, ma se serve per avere un’Europa finalmente più coesa sui grandi temi, da politiche di bilancio che tengano conto del benedetto vincolo intertemporale, piani di investimento orientati al futuro e, non ultimo, un supporto più deciso alla resistenza ucraina, ben venga.
Detto ciò, come nel caso degli emergenti, non sono da trascurare gli effetti che un dollaro più forte avrebbe sulla manifattura europea, dato che, come sarà noto, il prezzo delle materie prime, a cominciare dagli energetici, è espresso nella valuta statunitense. Il rischio è che anche l’Europa finisca per importare inflazione e, dunque, dover interrompere a sua volta il ciclo dei tagli.
L’altra frase che Lagarde ha ultimamente ripetuto è “Non siamo dipendenti dalla Fed”, ma quel “meeting by meeting” di risposta a chi le chiedeva anticipazioni su futuri tagli lascia intuire che – ancora – oltre alla totale mancanza di forward guidance, un occhio a cosa decide Powell lo darà sempre; e non potrebbe essere altrimenti, viviamo in un mondo globalizzato. Solo Bank of Japan, che nella riunione di ieri ha mantenuto la propria politica monetaria accomodante, continua ad andare per la propria strada.
Poi, certo, se parlassero tutti un po’ meno, magari avrebbero meno dichiarazioni da rimangiarsi…
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