Alcune settimane fa avevamo fatto il punto sulle mosse delle principali banche centrali occidentali, Fed, BCE e BoE, le quali, come visto, sono ancora allineate nel portare avanti politiche monetarie restrittive, seppur a ritmo più blando di quanto osservato nell’ultimo anno.
Poi è stata la volta del Giappone: tassi ancora su territorio negativo ma prime avvisaglie di un’inversione di tendenza attraverso l’ampliamento della banda di oscillazione di rendimento dei Titoli di Stato a 10 anni.
Stavolta, invece, intendo concentrare l’attenzione su quanto sta avvenendo sul resto delle economie asiatiche.
Atteggiamento meno aggressivo.
La maggior parte delle banche centrali orientali, complici tassi di inflazione inferiori, hanno adottato finora un atteggiamento meno aggressivo rispetto a quanto fatto dalla Federal Reserve statunitense.
Al forte apprezzamento del dollaro, che ha offerto agli investitori maggiori incentivi a trasferire denaro negli Stati Uniti, esercitando pressioni sulle valute asiatiche, i rispettivi responsabili delle politiche monetarie hanno risposto con una strategia basata su un mix di aumenti dei tassi, deprezzamento delle valute e interventi sul mercato monetario. Il miglioramento dei saldi delle partite correnti, la minor dipendenza dal debito estero e l’incremento delle riserve valutarie ha poi fatto il resto.
La sensazione è che anche in Oriente il tasso di inflazione abbia raggiunto il suo punto di flesso: Cina, India, Thailandia e Corea del Sud hanno infatti tutte fatto registrare un calo del livello generale dei prezzi.
Sì, perché rischi inflattivi legati all’abbandono della strategia “Zero-Covid” da parte della Cina, in particolare nel settore delle materie prime, dovrebbero essere compensati dal rallentamento delle economie occidentali previsto per il 2023. Quest’ultimo dovrebbe avere un impatto anche sulla crescita del Dragone, la quale rischia di avere un andamento meno regolare di quanto precedentemente ipotizzato.
Per tale ragione, il Presidente Xi ha in più di un’occasione ribadito quanto, in questa fase, la priorità sia supportare la crescita, più che difendere il potere d’acquisto del popolo cinese.
Insomma, la Cina andrà un po’ per conto suo, e questo potrebbe offrire interessanti opportunità per gli investitori.
A tale analisi va inoltre aggiunto che anche il dollaro dovrebbe aver raggiunto il suo massimo – il più alto dal 1985 in termini di tasso di cambio effettivo reale – dunque, non dovrebbero essere necessari ulteriori accorgimenti da parte degli operatori di politica monetaria asiatici per difendere le rispettive valute.
Attenzione però a cantare vittoria troppo in fretta.
Per avere un quadro più completo degli effetti che l’incessante azione della Fed ha avuto sulle economie asiatiche maggiormente connesse con gli Stati Uniti bisognerà attendere 6-8 mesi, che è il lasso di tempo che tendenzialmente occorre nella trasmissione della politica monetaria.
Se l’inflazione, come ci si augura, sarà domata, è presumibile ipotizzare un primo taglio dei tassi da parte di Powell, nell’ordine dei 25-50 punti base, verso l’inizio dell’ultimo trimestre dell’anno, tra settembre e novembre.
Nel frattempo, in Asia si fanno le prime prove di normalizzazione.
La Corea del Sud, per esempio, che dall’Agosto del 2021 ha aumentato i tassi di 275 punti base, il secondo più grande dopo le Filippine, ha avuto effetti ragguardevoli sul settore privato, pesantemente indebitato.
Il debito privato coreano è infatti il più grande al mondo, al 102% del PIL.
Oltre l’80% dei mutui prevede tassi di interesse variabili, dunque, le strette attuate da Bank of Korea hanno avuto un forte impatto sui cittadini, i quali hanno visto la propria rata lievitare. Per tali ragioni ci si attende nel prossimo futuro un approccio più cauto.
La Thailandia è un altro esempio di banca centrale vicina alla fine del ciclo di inasprimento dei tassi.
Dopo il picco di inflazione (7,9%) registrato in agosto, gli osservatori ritengono che essa dovrebbe ritornare nei ranghi, quindi nell’intervallo 1%-3%, entro il prossimo maggio. Per favorire il processo, si ritiene che Bank of Thailand implementerà un ultimo aumento di 25 punti base, portando il costo del denaro all’1,5%, entro questo mese.
Anche la Thailandia ha un settore privato altamente indebitato (87% del PIL), e particolarmente esposto alle esportazioni globali, in particolare a quelle di automobili. Il turismo in entrata sta riprendendo rapidamente, ma le previsioni indicano che non sarà sufficiente a invertire il previsto rallentamento della crescita.
Infine c’è l’India che, sebbene abbia tratto beneficio dalle restrizioni cinesi e possa disporre di un immenso mercato interno, potrebbe anch’essa subire gli effetti del rallentamento globale previsto nella prima fase dell’anno.
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Tirando le somme, i primi mesi del 2023 dovrebbero trascorrere sulla falsariga di quanto osservato lo scorso anno, all’insegna dell’incertezza, successivamente la ripresa ci sarà e con ogni probabilità prenderà il via in Oriente, dove tassi di inflazione più contenuti hanno portato ad interventi di politica monetaria meno severi, che influenzeranno solo marginalmente la crescita economica.
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