La riunione del board tenutasi ieri è stata per la Banca Centrale Europea un’importante crocevia riguardo le strategia di politica monetaria che l’Istituzione intende perseguire nei prossimi mesi. Se infatti gli ultimi meeting si erano rivelati interlocutori, votati all’attesa di comprendere e misurare quali effetti, prima lo shock pandemico, poi la guerra in Ucraina, avrebbero portato all’economia dell’Eurozona, ecco che ieri c’è stata la svolta.
Christine Lagarde ha di fatti sancito il ritorno alla normalità della politica monetaria dell’Eurozona.
Le decisioni sono diverse e attengono più fronti, dunque, meglio prima raccontarle singolamente per poi, successivamente, provare ad offrire un punto di vista complessivo.
Tassi su di un quarto di punto.
La Banca Centrale Europea ha annunciato che nella prossima riunione, in programma il 21 luglio, alzerà i tassi di interesse, per la prima volta dal 2011, di 25 punti base. La decisione, presa all’unanimità dal board, è in linea con quanto già fatto da altri suoi omologhi nel mondo ed ha come obiettivo contrastare la spirale inflazionistica.
Sebbene, infatti, l’inflazione core europea, ossia quella spogliata dai beni che presentano una forte volatilità di prezzo, in particolare gli energetici e i generi alimentari, sia ben lontana da quella osservata negli Stati Uniti – un dato che testimonia quanto l’aumento dei prezzi in Europa derivi per la quasi totalità dagli effetti della guerra (inflazione importata) più che da un surriscaldamento della domanda, e che dunque potrebbe presto rientrare in caso di un accordo tra i leader europei sull’introduzione di un tetto al prezzo del gas, come suggerito da Draghi, o, ma non pare ci siano i presupposti, con la fine del conflitto – Christine Lagarde ha deciso di giocare d’anticipo.
Nessun tentativo quindi, come ipotizzato da un giornalista nel corso della conferenza stampa, di accorciare il gap sulla Federal Reserve statunitense, che ha aumentato i tassi di interesse due volte da marzo a un intervallo compreso tra lo 0,75% e l’1%. “Le nostre economie non sono paragonabili” ha chiarito Lagarde, bensì “Utilizzare gli strumenti che abbiano a disposizione per portare l’inflazione al di sotto degli obiettivi”.
“Affinché ciò avvenga”, ha aggiunto Lagarde, “è necessario agire con gradualità e flessibilità“, sostantivi che la Presidente della massima istituzione di politica monetaria dell’area euro ha ripetuto più volte.
Ecco perché, per il momento, non si conosce l’entità dell’ulteriore stretta annunciata per settembre, a cui, con ogni probabilità, ne seguiranno delle altre: ad oggi gli analisti “vedono” aumenti dei tassi per cinque quarti di punto entro la fine dell’anno.
“Non è solo un passo, è un viaggio” ha chiuso Christine Lagarde.
Le nuove proiezioni degli esperti prevedono un’inflazione in Eurozona al 6,8% quest’anno, prima che scenda al 3,5% nel 2023 e al 2,1% nel 2024. Ciò significa che l’inflazione complessiva alla fine dell’orizzonte temporale considerato dovrebbe essere leggermente superiore al target del 2%. Come detto, invece, l’inflazione core dovrebbe attestarsi in media al 3,3% nel 2022, al 2,8% nel 2023 e al 2,3% nel 2024, anch’essa leggermente al di sopra di quanto previsto in marzo.
Le proiezioni sui prezzi sono state dunque riviste al rialzo dal board, che a marzo aveva previsto per il 2022 un’inflazione al 5,1%, al 2,1% nel 2023 e al +1,9% nel 2024.
Ciò ha contribuito a rivedere anche le stime di crescita dell’area euro, viste al ribasso per quest’anno (2.8% rispetto al precedente 3.7%) e per il prossimo (2.1% contro 2.8%), ma in rialzo per il 2024 (+2.1% rispetto al precedente 1.6%).
Fine del QE.
Christine Lagarde ha poi annunciato la fine dell’esperienza del quantitative easing dal primo luglio, sia per quanto concerne il Programma APP (Asset Purchase Programme), il “vero QE”, quello introdotto da Draghi nel 2015 per contrastare la salita degli spread, sia il PEPP (Pandemic emergency purchase programme), quello introdotto dall’attuale Presidente della BCE per combattere gli effetti della pandemia.
Il board ha però sottolineato la volontà di continuare a reinvestire integralmente il capitale derivante dai due piani, per quanto concerne l’APP, “per un periodo di tempo prolungato oltre la data in cui si inizierà ad aumentare i tassi di interesse di riferimento e, in ogni caso, per tutto il tempo necessario a mantenere ampie condizioni di liquidità e un adeguato orientamento di politica monetaria”, mentre per il PEPP, “almeno fino alla fine del 2024”.
La volontà da parte dell’Istituzione di mantenere pressoché inalterato il proprio bilancio di 8.8 trilioni di euro, quasi raddoppiato dall’inizio della pandemia, mira a mitigare gli effetti che la chiusura dei piani di politica monetaria non convenzionale potrebbero avere sull’economie più indebitate, e dunque più fragili, dell’Eurozona, tra cui il nostro Paese.
Anche in questo caso, dunque, è stata fatta una scelta diversa rispetto a quanto annunciato Oltreoceano.
Ciò nonostante, gli investitori non sono parsi troppo colpiti dalla decisione: il rendimento del Btp decennale è salito al 3.628%, il livello più alto dal 2018, mentre quello dell’equivalente tedesco (bund) è salito al livello più alto dal 2014, all’1.461%, prima che entrambi si abbassassero moderatamente. Lo spread Btp/Bund è dunque schizzato di poco oltre i 200 punti.
Essi si aspettavano probabilmente qualche dettaglio in più, sono infatti mesi che si vocifera riguardo la creazione di un piano ad-hoc che eviti le criticità emerse durante la Crisi del Debito del 2010.
La politica monetaria riuscirà a sconfiggere l’inflazione?
Difficile fornire una risposta netta e, soprattutto, valida per tutti.
Io credo che per l’Eurozona la risposta possa essere “Sì”, a patto che l’Istituzione riesca a rispettare i criteri di flessibilità e gradualità sottolineati da Lagarde in conferenza stampa. L’area euro continua ad essere un’entità sui generis, i cui interessi dei Paesi membri, ancora troppo spesso contrapposti, hanno costantemente la necessità di trovare una quadra. Servirà la politica, quella con la P maiusciola, scevra da sovranismi e populismi di sorta, anche perché le mire espansionistiche di Putin hanno dimostrato come non ci sia altra possibilità.
Per gli Stati Uniti potrebbe invece essere più difficile: il ruolo del dollaro quale principale riserva di valore, tanto da consentire alla prima economia del mondo di fare deficit senza preoccuparsene troppo, ha portato negli ultimi a piani di sostegno probabilmente eccessivi, prima con Trump, poi con Biden. L’inflazione osservata Oltreoceano non deriva infatti dal prezzo degli energetici, gli Stati Uniti, da questo punto di vista, sono pressoché indipendenti.
A tal proposito comincia a farsi strada l’idea che la politica monetaria sia stata troppo espansiva negli ultimi anni.
Mervyn King, per esempio, in una recente intervista a Sky News, ha affermato che i responsabili di politica monetaria di tutto il mondo hanno probabilmente esagerato con il supporto fornito ai Governi nella lotta alla pandemia: “Se stampi semplicemente molti soldi in un momento in cui stai producendo meno, hai il classico caso di troppi soldi che inseguono pochi beni e il risultato è l’inflazione”, aggiungendo che “Le banche centrali ora rischiano di fare troppo poco per riportare l’inflazione all’obiettivo”.
Con il senno di poi è sempre più facile, però l’ex Governatore di Bank of England potrebbe aver ragione.
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