Jerome Powell, Presidente della Federal Reserve, ha deciso di dar seguito alla stretta di 25 punti base dello scorso meeting di marzo, annunciandone un’altra di ulteriori 50 punti.
Decisione ampiamente prevista – qualcuno aveva ipotizzato una stretta ancora più ampia (75 punti base) – che porta il livello dei tassi all’intervallo 0.75%-1%; a tal proposito ricordiamo sempre che la Fed, a differenza della BCE, non utilizza un valore puntuale, bensì un intervallo.
Una duplice aumento non accadeva dal giugno del 2006 mentre, se si fa riferimento all’entità della singola stretta (50 punti base) bisogna addirittura tornare indietro al maggio del 2000, quando la Fed si ritrovò a combattere la bolla dei dot-com.
Ora a tener banco c’è un tema diverso, quello della preoccupante spirale inflazionistica, figlia, come ormai sarà chiaro ai più, dei blocchi agli approvvigionamenti causati dalla pandemia e dalla guerra in Ucraina.
In realtà, a differenza dell’Europa, tali fenomeni, soprattutto il secondo, avrebbero dovuto avere un impatto marginale sull’economia statunitense, praticamente autosufficiente sul piano energetico, dunque, secondo i critici – l’Economist ci ha fatto la copertina qualche settimana fa – con la scelta di ritardare l’inasprimento monetario, Powell avrebbe compiuto un errore piuttosto grossolano che rischia di far sprofondare il Paese in una recessione.
Lo stesso Powell, pur mostrandosi fiducioso, non l’ha esclusa.
Nella conferenza post riunione, il Presidente della Fed si è rivolto direttamente al popolo americano, una modalità vicina a quella di un Capo di Stato o di Governo, del tutto inconsueta per un banchiere centrale, mostrando vicinanza e comprensione verso chi, per il decimo mese consecutivo, ha visto ridurre il proprio potere d’acquisto (a marzo il dato sull’inflazione è stato misurato all’8.5%).
Il timore è che possa riproporsi la condizione osservata all’inizio del 2000 quando, dopo un aggressivo aumento dei tassi, portati allora al 6.5%, la Fed fu costretta sette mesi dopo a fare marcia indietro: la recessione già in corso, acuita dagli attacchi terroristici dell’11 settembre, costrinsero l’allora Presidente, Alan Greespan, a rapidi tagli, fino all’1% della metà del 2003, poco dopo la guerra in Iraq. Insomma, ora come allora, la Fed avrebbe perso il treno di agire sull’inflazione quando era più vantaggioso farlo, minando di fatto le prospettive di crescita future.
Ad ogni modo la Fed continua a ritenere che tali pressioni, come detto ascrivibili al lato dell’offerta, siano transitorie e superabili attraverso ulteriori strette, due delle quali, nell’ordine dei 50 punti base ciascuna, da realizzare nelle prossime riunioni. Se necessario, però, Powell si è detto pronto a successivi tagli per aggiustare il tiro.
Al momento, comunque, si prevede che entro la fine dell’anno i tassi giungano all’intervallo 2.75%-3%.
Powell ha inoltre sottolineato come l’Istituzione che presiede non abbia gli strumenti per agire sul lato della domanda, e di star impegnando le proprie energue per riequilibrare un mercato del lavoro che negli ultimi mesi si è eccessivamente surriscaldato.
Oltre alla stretta sui tassi, l’altro provvedimento importante preso da Powell attiene alla decisione di ridurre l’enorme bilancio dell’Istituzione, arrivato a 9 trilioni di dollari.
Anche qui, la Fed aveva acquistato obbligazioni per mantenere bassi i tassi di interesse e il flusso di denaro nell’economia durante lo shock pandemico, l’impennata dei prezzi ha però costretto ad una decisa inversione di tendenza.
Il piano illustrato ieri prevede una riduzione del bilancio graduale e suddiviso per fasi: defluiranno fino ad un massimo 30 miliardi di dollari in titoli del Tesoro e 17,5 miliardi di dollari in obbligazioni ipotecarie nei mesi di giugno, luglio e agosto; per i successivi, invece, verranno incrementati, rispettivamente, a 60 e 35 miliardi di dollari.
Secondo i piani di Powell, ciò dovrebbe fungere da cuscinetto alle strette che verranno, scongiurando il rischio recessione.
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