Nel consueto incontro del board della Federal Reserve, il primo in presenza dall’inizio della pandemia, il Presidente Jerome Powell ha annunciato il primo innalzamento dei tassi, nell’ordine di un quarto di punto, dal 2018, delineando, nel complesso, un’accelerazione verso la normalizzazione della politica monetaria statunitense.
Il livello dei tassi sale dunque all’intervallo 0,25-0,50%; a tal proposito, ricordiamo sempre che, a differenza dalla BCE, la Fed non utilizza un valore puntuale, bensì un intervallo.
Osservando i cosiddetti “dots” si ha un quadro più chiaro e interessante di quali siano le intenzioni della banca centrale statunitense per il futuro: per l’anno in corso si punta ad un tasso mediano tra l’1.75 ed il 2%, pari dunque a ben sei aumenti di un quarto di punto da qui alla fine dell’anno, uno per ciascuno dei prossimi incontri – in precedenza ne erano stati previsti soltanto tre -, altri quattro per il 2023 mentre, nel 2024, la situazione dovrebbe assestarsi, mantenendo così il livello dei tassi nell’intervallo 2.75-3%.
Qualcuno ipotizza che ci si potrebbe spingere addirittura oltre, al 3,25%, sarebbe il livello più alto dal 2008.
Insomma, un’accelerazione netta, che nasce soprattutto dal preoccupante dato sull’inflazione (+7.9% in febbraio, il dato peggiore dal 1982), vista per quest’anno al 4.3%, e che “ignora” il taglio sulle stime di crescita, abbassate al 2.8% rispetto al precedente 4%.
Powell ritiene che tale dato, seppur in calo, sia abbastanza forte da reggere un inasprimento della politica monetaria, sul quale i critici ritengono che la Fed abbia già tergiversato abbastanza.
Ad incoraggiare la decisione il buon risultato osservato dal tasso di disoccupazione, visto al 3.8%, e quello sui risparmi, aumentati anche “grazie” alle restrizioni legate alla pandemia.
In generale, le considerazioni alla base di tale cambio di passo partono dal presupposto che sì, la guerra comporterà un rallentamento della crescita e un’ulteriore accelerata all’inflazione, lo si sta già chiaramente osservando su generi alimentari ed energetici, ma che gli aumenti saranno circoscritti a quest’anno.
In altre parole, secondo la Fed, siamo “soltanto” di fronte ad una deviazione rispetto allo scenario di lungo periodo.
Nei mesi a seguire i banchieri centrali di tutto il mondo avranno il delicato compito di garantire un atterraggio morbido alle rispettive economie: ritardare la normalizzazione della politica monetaria rischia di far scappar via l’inflazione, attuare strette troppo decise, farle precipitare in recessione.
Lo spauracchio, come scritto nel precedente articolo, è una stagflazione sullo stile di quella osservata negli anni ’70.
Per Powell, il quale ancora attende la formalizzazione da parte del Senato sul suo secondo mandato, c’è anche l’insidia legata alle elezioni di medio termine, nella quale i democratici, ossia coloro i quali gli hanno garantito la riconferma, rischiano di perdere la già risicata maggioranza al Congresso a causa dell’eccessivo aumento dei prezzi.
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