Mentre i maggiori banchieri centrali del mondo si interrogano sull’entità e sulle tempistiche con cui attuare una serie di strette monetarie con l’obiettivo di combattere la preoccupante spirale inflazionistica, c’è un Paese ai confini dell’Unione Europea, la Turchia, un tempo persino candidata all’ingresso in quella che è l’area di libero scambio più ricca del mondo, che sta adottando politiche monetarie assolutamente agli antipodi, e con risultati, come vedremo, assolutamente deficitari.

Infatti, mentre l’Occidente appare scosso da tassi di inflazione di qualche punto percentuale superiori al livello target (2%) ma comunque inferiori alla doppia cifra, in Turchia il decremento del potere di acquisto per i cittadini è ormai prossimo al 50%.

Secondo la Turkstat, l’istituto di statistica del Paese, l’inflazione in gennaio è balzata al 48.7% rispetto al mese precedente – in dicembre il dato era al 36.1% – il rialzo più elevato dall’aprile del 2002.

Questo, per quanto concerne il dato ufficiale: secondo un gruppo di economisti indipendenti, il tasso di inflazione sarebbe in realtà più che doppio, intorno al 110%.

A cosa si deve tutto ciò?

Oltre ai fattori che stanno caratterizzando l’aumento dei prezzi in quasi tutto il mondo, ciò si deve alla incomprensibile politica economica attuata dal Presidente Recep Tayyip Erdogan.

Il Presidente turco è dell’idea che un elevato tasso di inflazione si combatta tagliando i tassi, l’esatto opposto di quanto prevede la moderna teoria monetaria.

Ciò significa che mentre gran parte dei banchieri centrali del mondo si muove verso un loro, graduale, innalzamento, Erdogan continua ad obbligare i responsabili della politica monetaria del Paese a tagliarli, pena il licenziamento.

È così che, in circa tre anni, sono saltati ben 4 banchieri centrali, “colpevoli” di aver agito seguendo quanto studiato all’Università.

Da settembre a dicembre dello scorso anno, i tagli complessivi sono stati complessivamente di ben 500 punti base, i quali hanno portato il tasso di riferimento al 14%.

I tassi di interesse reali, giunti in territorio negativo – ciò avviene quando il tasso di inflazione è superiore al tasso di riferimento – ha così spinto i cittadini turchi ad evitare di depositare il proprio denaro, preferendo convertirlo in altre valute estere, su tutte il dollaro, o persino in criptovalute. 

E a poco è valsa l’introduzione da parte del Governo di Ankara di depositi indicizzati all’inflazione, con lo scopo di sostenere le perdite nel caso in cui la valuta turca si deprezzi più degli interessi attivi sul conto: i turchi stanno via via abbandonando la lira, che solo nello scorso anno ha perso circa il 45% del proprio valore rispetto al dollaro.

Alla comunicazione del dato sull’inflazione, Erdogan ha reagito alla sua maniera, licenziando.

Erdal Dincer, attuale capo della Turkstat, a soli dieci mesi dall’incarico, è stato messo alla porta, andando così a pareggiare il computo dei banchieri centrali: dal 2019 sono 4 anche i capi dell’agenzia nazionale di statistica ad essere saltati.

Il Presidente turco ha poi ammesso che “Sì, i turchi dovrebbero sopportare il peso dell’inflazione per un po’ di tempo ma che, se Dio vuole, siamo entrati in una fase in cui ogni mese sarà migliore del precedente”.

Erdogan ha sempre addotto a motivi religiosi il suo rifiuto di conformarsi alla dottrina economica prevalente, in quanto vede l’aumento dei tassi come un riferimento all’usura, vietata dall’Islam.

Il Ministro delle finanze, Nureddin Nebati, ritiene invece che il picco si avrà in aprile per poi abbassarsi gradualmente fino ad arrivare ad una cifra (!) entro le elezioni del giugno 2023. Ipotesi altamente improbabile.

Nebati è fiducioso nel buon esito degli incontri internazionali con gli investitori che avrà nelle prossime settimane – probabilmente spera che abbiano tutti studiato dagli stessi libri di Erdogan – a cominciare da Londra: “Ci siamo già lasciati alle spalle la parte rischiosa di questo nuovo modello nel 2021. Solo la scossa di assestamento del problema dell’inflazione è rimasta per il 2022 e sarà gestita principalmente entro quest’anno”, ha dichiarato in una recente intervista al Nikkei Asia.

Insomma, “The best is yet to come” direbbe Frank Sinatra, nel frattempo, con la lira ridotta ai minimi termini, i dollari di cui la Turchia ha bisogno per pagare l’energia e le altre importazioni diventano sempre più costosi.

Il fallimento della politica economica del Presidente Erdogan è sotto gli occhi del mondo, l’auspicio è che se ne accorgano anche i cittadini turchi, ammesso che venga loro consentito di votare in libertà.

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