In dicembre, il dato sull’occupazione, ancora distante dal livello del pre-pandemia, aveva suggerito cautela: l’inflazione sarebbe stato sì un problema da affrontare, in quanto già allora non ritenuta più transitoria e ben oltre il livello target, ma non da aggredire.
L’aggettivo “forte” utilizzato ieri da Jerome Powell, chairman della Federal Reserve, nel definire il mercato lavoro è stato probabilmente la chiave del cambio di passo annunciato ieri, dunque, quel “livello coerente” ipotizzato in dicembre, condizione essenziale per l’inizio della normalizzazione della politica monetaria statunitense, appare raggiunto o, quantomeno, prossimo all’essere raggiunto.
Da marzo dunque cominceranno una serie strette, le prime dal 2018, di frequenza e entità ancora da stabile – molti analisti ritengono un aumento di un quarto punto per marzo, a cui ne seguiranno ulteriori tre nel corso dell’anno – a tal proposito Powell ha parlato della necessità di una politica monetaria più “agile”. Nel contempo, anche le dimensioni del bilancio della Fed andranno via via riducendosi, con un ritmo, tempi e modalità che verranno anch’essi definiti nel corso dei prossimi meeting: ciò che è emerso finora è che, nel lungo periodo, l’accento si sposterà verso la detenzione di titoli del Tesoro.
In sintesi, l’economia americana pare non aver più bisogno di essere sostenuta, sia, come detto, dal punto di vista della politica monetaria, sia da quello della politica fiscale.
È chiaro che eventuali nuove varianti del Covid, il perdurare delle strozzature nelle catene di approvvigionamento osservate negli ultimi mesi, nonché un peggioramento della situazione in Europa orientale, potrebbero rimescolare le carte in tavola.
In questo momento, con l’inflazione al 7%, il massimo dagli anni ’80, era importante agire, in modo che le aspettative inflazionistiche non si radicassero eccessivamente, tanto sui prezzi, quanto sulle mosse della stessa Fed, minandone l’efficacia, in futuro si vedrà.
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