A chi stanno simpatiche le banche? Praticamente a nessuno.
Additate come un male di estirpare, poco trasparenti, eccessivamente care nelle commissioni, sempre più orientate al trading che alla fornitura di servizi per i correntisti ordinari, protagoniste di molti scandali e, dunque, facile capro espiatorio di ogni crisi economico-finanziaria, eppure il ruolo svolto dalle banche risulta ancora oggi centrale per il funzionamento del nostro sistema economico, tanto che un fallimento di un istituto di credito, anche quando di piccole dimensioni, può causare danni così ingenti da costringere qualsiasi Governo, di qualsiasi colore politico, al suo salvataggio, attirandosi le ire dell’opinione pubblica.
L’avvento dei giganti del web, dopo aver già pesantemente scombussolato – e in certi casi annientato – tanti altri settori, si appresta a rivoluzionare anche quello della finanza, riducendo sensibilmente le tradizionali funzioni svolte dalle banche.
È un bene?
Razionalmente, chi non ha mai visto di buon occhio il potere assunto dal sistema bancario avrebbe di che rallegrarsi, in realtà, come proverò a spiegare di seguito, le cose sono sempre più complesse di quanto possano sembrare.
Il proliferare della tecnologia, esacerbato, se possibile, ancor di più dalla pandemia, sta letteralmente sconvolgendo il nostro stile di vita: le aziende del fintech, neologismo derivante dalla fusione dei vocaboli financial e technology, offrono soluzioni sempre più smart ai propri clienti, i quali, dai propri smartphone, con pochi click, riescono a svolgere azioni con una facilità, una velocità e a costi fino a qualche anno fa inimmaginabili.
Come ci riescono?
Innovazione, costi fissi praticamente nulli, abilità di eludere il Fisco e le normative vigenti, eppoi, si sa, quando qualcosa è gratis, il prodotto sei tu.
Tale rivoluzione ha un peso ancor più rilevante nei Paesi in via di sviluppo, dove l’assenza di uno sviluppato sistema bancario e finanziario ostacola pesantemente la crescita economica: in un paesino di provincia del terzo mondo è difficile trovare una banca, molto più facile uno smartphone.
Non è però tutto oro quello che luccica: spogliare le banche della propria principale funzione, quella di fungere da intermediari tra chi ha denaro in eccesso e chi ne richiede, non solo mette a rischio la tenuta dell’intero sistema ma, soprattutto, mina la capacità dei banchieri centrali di influenzare la politica monetaria.
Di fatto, ciascuna banca centrale raggiunge gli obiettivi insiti del proprio statuto – in genere la stabilità dei prezzi e/o il tasso di disoccupazione, o entrambi – in maniera indiretta, attraverso il controllo del tasso di riferimento – mediante la scelta di un aggregato monetario – ossia del tasso di interesse che essa applica alle banche. Infatti, sebbene le banche commerciali siano libere di fissare i propri tassi di interesse sui prestiti e quelli offerti sui depositi, essi tendono a derivare dal tasso di riferimento.
Il rischio, molto grave, è quello di vedere le banche centrali perdere il controllo della politica monetaria a vantaggio di multinazionali: passare da istituzioni pubbliche indipendenti a Facebook non sembra un grande affare.
È per questo motivo che gran parte delle banche centrali stanno accelerando verso l’introduzione di una valuta digitale, anche detta CBDC (Central bank digital currency): si tratta per lo più di uno strumento di difesa contro aziende che hanno ormai assunto la grandezza ed il potere di Stati nazionali che un reale bisogno di innovazione.
Introdurre sistemi di pagamento che superino il contante è dunque un modo per competere con i pagamenti digitali dei giganti privati.
In Cina, per esempio, dove app di pagamento come Alipay e Tencent, complice un sistema bancario ben lontano da quelli occidentali, spopolano, più di 100.000 persone stanno già utilizzando uno yuan digitale in progetti pilota. Il recente fiasco dell’IPO di Ant Group, la società del miliardario Jack Ma che controlla tra gli altri Alipay, è emblematica di quanto il Partito Comunista tema di perdere il controllo del Paese. Si tratta di un equilibrio assai complicato da mantenere.
È chiaro però che l’introduzione di ciò che equivale a un nuovo sistema monetario comporta tanto dei vantaggi quanto dei rischi.
Disporre di una valuta digitale, significa avere un proprio conto corrente direttamente presso la Banca Centrale del Paese in cui si vive e non più – o non solo – presso la filiale di un istituto bancario privato.
Ciò comporterebbe un deciso miglioramento della trasmissione della politica monetaria, la quale non avverrebbe più, come nel caso dell’Eurozona, attraverso il controllo di strumenti indiretti, vedi l’aggregato M3. Nel contempo, però, limitare l’azione delle banche tradizionali in Paesi meno democratici e dunque aumentare il coinvolgimento della banca centrale nelle transizioni quotidiane, aumenterebbe il rischio di interferenze dei Governi sulle decisioni di acquisto dei propri cittadini: si pensi alla Turchia, dove Erdogan in un anno e mezzo è riuscito nell’impresa di cambiare tre Governatori, con l’introduzione di una e-lira il Presidente turco potrebbe, per esempio, vietare la possibilità di acquisto di giornali o libri che lo contestano.
L’introduzione di una valuta digitale ha un senso solo se il responsabile della politica monetaria gode di assoluta indipendenza dalla politica.
Oltre a ciò, andrebbero valutati i rischi legati ad una guerra informatica: se l’attacco ai server di una banca genera enormi disservizi, cosa accadrebbe se lo stesso attacco fosse perpetrato nei confronti della Federal Reserve?
Una soluzione potrebbe essere quella di limitare gli importi detenuti presso l’Istituzione ad una certa soglia, magari anche spogliati da ogni sorta di interesse, in modo da non indebolire eccessivamente il ruolo delle banche tradizionali, la cui funzione di sostegno a imprese e famiglie, seppur, come detto in apertura, oggetto di tanti scandali negli ultimi anni, continua ad essere importante.
C’è poi chi sostiene che le banche centrali dovrebbero evitare del tutto di entrare in questa disputa, una posizione probabilmente miope, dato che la creazione di una cbdc trascende dai confini nazionali o valutari. Una società come Ant, per esempio, attraverso i propri partner è in grado ad oggi di raggiungere 400 milioni di clienti al di fuori della Cina, poniamo il caso che, in un prossimo futuro, un Paese in via di sviluppo subisca una crisi valutaria, famiglie e imprese di quel Paese potrebbero scegliere di effettuare acquisti o riscuotere pagamenti in yuan digitale mediante codice QR sul proprio smartphone anziché in valuta locale.
Per i piccoli Paesi soprattutto, l’introduzione di una valuta digitale sembrerebbe dunque l’unico modo per mantenere nel tempo la propria sovranità monetaria.
Non farlo li porrebbe di fronte ad un bivio: adottare valute digitali di Paesi sviluppati, dando quindi un seguito – per certi versi ancor più stringente – a quanto già avviene con le cosiddette valute di riferimento (dollaro, euro, yen) o diventare ostaggio di Diem (un tempo Libra) o di altre valute digitali di qualche gigante del web.
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