Nella settimana appena trascorsa è stato diffuso il dato sul surplus tedesco per il 2019: 13.5 miliardi di euro, il più alto di sempre.
Quello del surplus commerciale tedesco è un tema interessante, già affrontato in maniera – credo – esaustiva dal sottoscritto in un articolo di qualche anno fa e che, per una maggiore comprensione di quanto seguirà, vi invito a rileggere.
Alla luce dei numerosi, ma per lo più infruttuosi, sforzi compiuti dalla BCE nel rinvigorire la crescita economica in Eurozona, la politica fiscale dovrà rivestire un ruolo di primo piano negli anni a venire, in particolar modo se dovesse manifestarsi all’orizzonte una nuova recessione.
Sia Mario Draghi, nel corso della sua ultima conferenza alla guida dell’Istituzione, sia Christine Lagarde che ne ha raccolto l’eredità, infatti, sono d’accordo nel sostenere che i Governi dotati di maggior margini di manovra in materia fiscale avranno un ruolo determinante per il futuro dell’Eurozona.
Draghi: Governments with fiscal space should act in an effective and timely manner. In countries where public debt is high, governments need to pursue prudent policies and meet structural balance targets.
— European Central Bank (@ecb) October 24, 2019
Dal dato citato in apertura, però, si comprende come tali appelli siano in realtà rimasti tali: la Germania, il Paese con le finanze pubbliche più solide dell’Eurozona, la cosiddetta “locomotiva d’Europa”, non sta facendo nulla per trainarla, continuando a preferire la strada miope della crescita trainata dalle esportazioni, per lo più extraeuropee.
Sta però sopraggiungendo un fatto nuovo.
Le stime di crescita dell’economia tedesca per il 2019 sono ferme a +0.5%, in netto calo rispetto a quanto fatto registrare nel 2018 (+1.5%) e nel 2017 (+2.5%), numeri che lasciano presagire che il secondo miracolo economico tedesco – il primo è considerato l’ascesa post-bellica della Germania Ovest – coinciso grossomodo con la Cancelleria Merkel, sia ormai giunto al capolinea. Ciò non vuol dire necessariamente che la Germania attraverserà un nuovo periodo di crisi, ma che la locomotiva stia cominciando a rallentare senza dubbio sì.
Cosa può far sì che una crescita trainata dalle esportazioni possa arenarsi?
I motivi sono essenzialmente due:
1. Ciò che viene prodotto non incontra più i favori del mercato.
2. Il commercio internazionale sta subendo un rallentamento.
Diciamo che stiamo assistendo al manifestarsi contemporaneo di entrambi i fenomeni.
Il punto 1 può essere riassunto nel fatto che i punti di forza dell’economia tedesca cominciano a diventare meno rilevanti nell’economia mondiale.
Prendiamo per esempio l’industria automobilistica, fiore all’occhiello dell’economia tedesca. La crescente attenzione sul tema del global warming e la conseguente svolta green ha notevolmente intaccato il successo dei motori a combustione, visti ormai come vecchi e inquinanti, e lo scandalo dieselgate del 2015 ha senz’altro accelerato il processo. I consumatori, inoltre, sembrano sempre meno interessati alle performance dei propri veicoli, più attratti da temi quali la sostenibilità ambientale, le app e la guida autonoma. Non è ancora chiaro chi riuscirà a dominare il mercato dell’elettrico e va dato atto alle aziende automobilistiche tedesche, dopo aver a lungo dileggiato Tesla, di essere corse ai ripari con forti investimenti, questo però non significa che il passaggio alla propulsione elettrica non comporterà conseguenze, basti pensare, per esempio, che i motori elettrici si compongono di circa 200 parti contro le 1.200 di un motore a combustione, impossibile credere che ciò non porterà ripercussioni sul fronte occupazionale per l’industria automobilistica teutonica.
Anche sull’intelligenza artificiale e più in generale dell’economia digitale, la Germania non sembra riuscire a tenere il passo di Stati Uniti e Cina, anche in virtù del tema “privacy“, sul quale i cittadini tedeschi appaiono particolarmente sensibili.
Il punto 2 è, se possibile, di comprensione ancor più agevole.
La nuova ondata di protezionismo che sta investendo il mondo non può non condizionare chi, come la Germania, è stata tra i maggiori vincitori della sfida globalizzazione.
La riconosciuta bontà delle produzioni tedesche, il timing con cui il mercato del lavoro è stato riformato (Piano Hartz del 2003), nonché la capacità di sfruttare a proprio vantaggio l’introduzione dell’euro, una moneta più debole di quanto sarebbe stato il marco adesso, sono stati gli elementi trainanti della crescita tedesca.
Ora che, come detto, le produzioni tedesche perdono appeal sui mercati internazionali, ora che i prodotti cinesi stanno velocemente riducendo il gap sotto il profilo qualitativo riuscendo a mantenere nel contempo prezzi accessibili, merito soprattutto del basso costo della manodopera, irraggiungibile anche dal più flessibile mercato del lavoro europeo, la necessità di ridurre il proprio surplus commerciale trainando così l’intera Eurozona verso un nuovo sentiero di crescita sembrerebbe imprescindibile.
A quest’analisi va aggiunto, infine, il tema, per altro condiviso con gran parte del mondo occidentale, dell’invecchiamento della popolazione: negli anni ’90 la Germania aveva quattro cittadini in età lavorativa per ogni pensionato, per il 2035, quando i boomers saranno andati in pensione, la Bundesbank stima che essi saranno soltanto due, un ulteriore ostacolo al ritorno ad una crescita sostenuta.
I tedeschi hanno sempre impressionato l’Europa e il mondo per la loro capacità di visione, per la loro razionalità nelle scelte, l’auspicio è che l’egoismo spicciolo osservato negli ultimi anni venga soppiantato, ne va del loro futuro oltre che di quello dell’intera Eurozona.
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