Un freno alla ripresa dell’Eurozona: il surplus tedesco.

da | Lug 23, 2016 | Politica economica | 0 commenti

Wolfgang Schäuble, foto a mezzo busto, in giacca e cravatta

Il Ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schäuble.

In questi anni, in virtù della Crisi dei mutui subprime prima, e di quella del Debito Sovrano poi, si è considerata l’Europa come un’entità spezzata in due: da un lato, i Paesi virtuosi, ossia quelli dell’Europa centrale e settentrionale, su tutti la Germania; dall’altro, i Paesi periferici, definiti a più riprese PIGS, GIPSY, o anche “Paesi cicala”, insomma, gli spendaccioni, quelli con i conti in disordine e che, a causa di spese scellerate, rischiavano di minare l’intero progetto europeo.

Da qui, quindi, il sentirsi in diritto da parte dei primi di poter dare lezioni ai secondi, l’imposizione di ferree politiche di bilancio, le cosiddette politiche di austerità – il fiscal compact, il pareggio di bilancio in Costituzione e via discorrendo – talvolta avvalorate anche da influenti accademici, che hanno finito per convincere i nostri governi e, spesso, persino l’opinione pubblica, che la strada giusta da percorrere fosse questa.

Si parla spesso del rapporto deficit/PIL, il quale, come certamente saprete, non deve superare il 3%, meno spesso del rapporto debito/PIL che, a sua volta, non deve superare il 60% – ormai non lo rispetta praticamente nessuno – mai del rapporto surplus/PIL il quale non deve eccedere il 6% per tre anni di fila. Questa regola nasce dall’esigenza di non allargare le fratture all’interno dell’Eurozona perché, capirete, per uno Stato che fa registrare un surplus della propria bilancia commerciale, ce ne sarà un altro, o più di un altro, che farà registrare un deficit.

La Germania è da ben nove anni che se ne infischia, nel 2015 il suo surplus ha toccato addirittura l’8.5%. Anziché fungere da locomotiva d’Europa, come spesso si è soliti definirla, con questo atteggiamento la sta affossando.

Germany

Il rapporto surplus/PIL tra i Paesi europei, in giallo quello tedesco. Fonte: Eurostat.

È indubbio che il “Made in Germany” raccolga i favori del mercato. In molti settori, dall’industria automobilistica alle macchine utensili, passando per i prodotti chimici, i prodotti tedeschi risultano particolarmente apprezzati, non solo in Europa ma nel mondo intero, e neppure il dieselgate di Volkswagen sembra aver minato ciò.

Si dirà, il surplus commerciale tedesco è frutto del successo della loro economia, è un vanto, non una colpa. Invece il discorso è più articolato, anche perché ci sono tanti altri Paesi che fanno buoni prodotti senza generare avanzi commerciali così elevati.




Proviamo a spiegare il perché.

Il successo dei prodotti tedeschi non è esclusivamente frutto della loro bontà, ma anche di altri fattori che aiutano a decretarne il loro successo. La debolezza dell’euro, per esempio, frutto delle misure di alleggerimento monetario, rende i prodotti teutonici particolarmente appetibili sui mercati internazionali; si stima infatti che se la Germania avesse ancora il marco, la valuta tedesca sarebbe più forte dell’euro di oggi, e ciò ridurrebbe il vantaggio competitivo di cui in questo momento essa sta beneficiando.

Inoltre, si ritiene che nel surplus commerciale tedesco incidano politiche fiscali restrittive in materia di finanza pubblica, quindi, anche in termini di ammontare delle importazioni.

E, nello scenario attuale, caratterizzato da una crescita ancora fragile e lenta, il surplus tedesco è un problema ancor più grave.

Gli altri Paesi dell’Eurozona, inoltre, in particolare quelli mediterranei, si trovano ad affrontare un elevato tasso di disoccupazione senza poter disporre di alcun margine da cui attingere per dare slancio alla domanda interna attraverso un aumento della spesa pubblica o, più ragionevolmente, mediante un taglio della tassazione, in particolare del cuneo fiscale. Anche fuori dall’Eurozona, la situazione non è entusiasmante: seppur l’economia statunitense stia dando segnali di ripresa, i Brics, causa prezzo del petrolio in discesa, soffrono, senza contare le difficoltà dell’economia cinese, la cui crescita a doppia cifra sembra ormai solo un ricordo. Stante queste condizioni, l’unica componente della domanda aggregata in grado di rilanciare la crescita dell’Eurozona è rappresentata dalle esportazioni. Dovrebbe dunque comprare chi cresce, la Germania, che, anziché importare (acquistare), continua ad esportare (vendere), soprattutto ai Paesi extraeuropei. Si tratta di una visione miope – presto quei Paesi potrebbero fare a meno delle esportazioni tedesche – e, continuando ad ignorare le difficoltà dell’Eurozona, prima o poi i tedeschi si ritroverebbero senza un mercato di sbocco.




In altri termini, la Germania fa concorrenza ai suoi stessi partner europei utilizzando egoisticamente i vantaggi di far parte di un’Unione Valutaria, beneficiando, nel contempo, del vantaggio competitivo ottenuto dalla propria riforma del mercato del lavoro.  Essa, denominata Piano Hartz, realizzata nel 2003 dall’allora Premier Schroeder, rappresenta, come detto, il vero vantaggio competitivo della Germania sul resto dell’Eurozona, in quanto ha liberalizzato tale mercato introducendo una serie di interventi (mini job, taglio dei costi del sistema sociale, aumento dell’età pensionabile a 67 anni e così via) che hanno determinato, nel complesso, un aumento dei salari reali inferiore rispetto all’incremento della produttività. In pratica, la Germania, a differenza, per esempio degli USA – che da anni generano un saldo negativo delle partite correnti trainando l’economia mondiale – si comporta da piccola economia in via di sviluppo anziché da maggiore economia europea, spingendo tutti gli altri, Italia in primis – il discusso Jobs Act ne è la prova – a fare lo stesso.

Insomma, i Paesi europei si stanno affannando ad aumentare la propria competitività spingendo verso il basso il costo del lavoro, rendendolo più segmentato e meno protetto, rubando così il futuro alle nuove generazioni e alle prospettive di crescita future della Nazione intera.

Facciamo un esempio: se si entra sempre più tardi nel mondo del lavoro e con contratti sempre più precari – i nuovi contratti a tempo indeterminato sono una presa in giro perché di indeterminato, a differenza dei precedenti, hanno ben poco – sarà sempre più complicato per un giovane costruirsi una famiglia, mettere al mondo dei figli, i quali, un giorno, dato il sistema a ripartizione, dovranno “pagare” le nostre pensioni. Ciò determina, e sta determinando, un invecchiamento della popolazione, con la necessità di continue riforme concernenti l’innalzamento dell’età pensionabile, assegni sempre più bassi e tassi di disoccupazione sempre più alti per i giovani. Anziché “occidentalizzare” la Cina, stiamo “orientalizzando” l’Europa e, nello stadio di sviluppo in cui siamo noi occidentali, in termini di legislazione anti-inquinamento, libertà sindacali – minori rispetto al passato ma ancora presenti – e così via, non saremo mai nella condizione di poter competere.

Ci stiamo impoverendo per nulla!

Chiariamo un altro aspetto: il modello di sviluppo tedesco, cioè di crescita trainata dalle esportazioni estere funziona se c’è qualcuno che acquista ciò che loro producono, se lo adottassimo tutti sarebbe diverso, come detto in precedenza, per chi realizza un avanzo, c’è qualcun altro che farà registrare un disavanzo.

C’è di più: molti sostengono che la Crisi dell’Eurozona non sia dipesa, come sostenuto da tanti, dal nostro essere delle cicale, ossia dall’aver vissuto oltre le nostre possibilità – almeno non del tutto – ma proprio da una crisi della bilancia commerciale.

I tedeschi hanno lungamente investito sui titoli pubblici dei Paesi mediterranei attirati dagli alti tassi di interesse, credendo, erroneamente, nella impossibilità di esplosione di una Crisi del debito; quando ciò è accaduto, hanno provato a farci la morale dandoci degli spendaccioni, ma voi prestereste mai del denaro, anche se a tassi elevati, ad una persona già pesantemente indebitata? Io no!

È chiaro che, più il debito aumenta, più le possibilità che il debitore riesca a farvi fronte diminuiscono.

Qual è la soluzione?

Come già suggerito dal Fondo Monetario Internazionale qualche anno fa e dall’ex Governatore della Federal Reserve, Ben Bernanke, la Germania dovrebbe agevolare la ripresa economica dell’Eurozona, e dunque accorciare, il percorso di correzione dei deficit pubblici dei partner europei, riducendo il proprio surplus commerciale.

Nonostante essa disponga di un controllo modesto sulla valuta comune – la BCE è per statuto indipendente – essa potrebbe attuare alcune misure che, non solo, come detto, migliorerebbero la condizione di tutti i cittadini europei, ma renderebbero gli stessi cittadini tedeschi più ricchi.




La parola chiave è investire.

La Germania potrebbe destinare il proprio surplus commerciale in un pesante piano di investimenti pubblici in infrastrutture, beneficiando, semmai ce ne fosse bisogno, dei tassi reali negativi frutto del quantitative easing. Ciò porterebbe ad un incremento del reddito nazionale e della spesa, a tutto vantaggio di occupazione e salari. Da maggiore possibilità di spesa deriverebbero maggiori importazioni, dunque, un indiretto sostegno alle economie dei Paesi partner, sia in termini di produzione industriale, sia in termini occupazionali, dunque, come detto, una diminuzione del surplus commerciale.

Inoltre, potrebbero essere messi a punto strumenti fiscali atti ad incentivare l’investimento privato, magari indirizzandolo verso il mercato interno e non, come fatto in passato, verso la speculazione nei Paesi in difficoltà.

Nell’attuale contesto, se da un lato il raggiungimento dell’obiettivo di un tasso di inflazione prossimo al 2% – ricordiamolo, obiettivo principale della BCE – finisce per deprezzare l’euro, rendendo ancor più appetibili i prodotti tedeschi e quindi contribuendo ad un aumento del loro surplus, dall’altro, una politica monetaria più accomodante permette la necessaria correzione dei salari relativi – atti a ripristinare la competitività – meno dolorosa, in quanto essa interviene su un rallentamento della crescita e non sulla diminuzione nominale dei salari.




Insomma, la parola d’ordine è sempre e solo una, solidarietà, altrimenti l’euro e l’Europa tutta, Germania inclusa, sarà destinata all’oblio.

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