Politica monetaria, facciamo il punto della settimana.

da | Giu 17, 2022 | Politica economica | 0 commenti

Quella che sta per concludersi è stata una settimana piuttosto movimentata per la politica monetaria.

Se da un lato Federal Reserve e Bank of England proseguono a colpi di strette monetaria il loro disperato, ma quantomeno coerente, inseguimento all’inflazione, dall’altro c’è chi, come Swiss National Bank, lo fa a sorpresa, come vedremo, non certo una novità per l’Istituzione svizzera. Eppoi ci sono Banca Centrale Europea e Bank of Japan, con la prima che, al di là dei buoni propositi e della riunione di emergenza andata in scena questa settimana, prova per il momento a sedare i mercati limitandosi a fare la voce grossa, e la seconda che, invece, continua a temporeggiare, quasi incredula di osservare un tasso di inflazione stabilmente su territori positivi.

Ma provare a tirare le somme, cercando analogie e discrepanze tra l’agire dei vari attori in causa non è mai esercizio semplice, tanto per chi scrive, quanto per chi legge, dunque, facciamo ordine ed analizziamo le situazioni caso per caso.

Cominciamo dalla Federal Reserve.

Nella serata di mercoledì (ora italiana), Jerome Powell ha annunciato una stretta monetaria di ben 75 punti base, portando il livello dei tassi all’intervallo 1.5%-1.75%.

La decisione, presa quasi all’unanimità – il solo Governatore di Kansas City, George, avrebbe preferito un rialzo di soli 0.50 punti – assume una certa rilevanza se si osserva che era dal 1994 che la massima istituzione di politica monetaria statunitense non attuava una stretta di queste proporzioni. Non solo, Powell ne ha già prefigurata un’altra, presumibilmente di eguale entità, per il prossimo meeting di luglio.

Le proiezioni ci dicono che entro la fine dell’anno il livello dei tassi dovrebbe spingersi fino al 3.4%, per arrivare al 3.8% a fine 2023. Solo tre mesi fa si parlava, rispettivamente, di 1.9% e 2.8%.

L’inflazione è completamente sfuggita di mano, tanto alla Fed, che per mesi ha temporeggiato, sperando avesse carattere transitorio, tanto ai responsabili politici, prima Trump, poi Biden, che pur di mantenere alto il consenso, non hanno lesinato mastodontici piani di spesa pubblica.

Sì, perché, come già chiarito in un mio precedente articolo, mentre l’inflazione in Eurozona è riconducibile essenzialmente all’aumento del costo dell’energia, conseguente alla Crisi Ucraina, e dunque destinata a rientrare nel momento in cui ci sarà una tregua, quella osservata negli USA, data l’autosufficienza del Paese sotto questo profilo, deriva da un eccesso di domanda.

Poi, certo, la pandemia ha influito e parecchio sulle scelte, negare gli aiuti in un periodo così drammatico sarebbe stato politicamente insostenibile, ciò nonostante, complice presumibilmente il complicato passaggio elettorale, si è andati oltre.

La Fed ha infine ribadito l’intenzione di ridurre il suo enorme bilancio di 47.5 miliardi di dollari al mese – una mossa già entrata in vigore nel precedente meeting di giugno – e che sarà ulteriormente rafforzata in settembre, quando si arriverà a 95 miliardi di dollari mensili.

Un grafico di sintesi con le proiezioni future dei più importanti indicatori dell’economia statunitense. Fonte: Bloomberg

Bank of England.

Quinto aumento consecutivo per Andrew Bailey, Governatore di Bank of England, che porta il livello dei tassi all’1.25%, il livello più alto dal 2009. Una decisione, quella di inasprire la politica monetaria del Regno Unito di 25 punti base, che ha diviso il board, 6 voti contro 3, con questi ultimi che avrebbero preferito maggiore aggressività.

Non scordiamo infatti che BoE è stata la prima, tra le grandi banche centrali del mondo, ad aumentare i tassi nel post Covid, l’impressione è che ora i responsabili della politica monetaria del Regno Unito vogliano essere più riflessivi.

Se da un lato l’inflazione è arrivata a doppia cifra, le ultime stime ci dicono che supererà l’11%, dall’altro, alle difficoltà che il Paese sta incontrando, comuni a gran parte delle economie del mondo, si aggiunge la variabile Brexit.

Il rischio che il Regno Unito scivoli in una profonda recessione si fa sempre più alto, per questo motivo, secondo alcuni osservatori, sarebbe miope affannarsi nell’inseguire la spirale inflazionistica con ulteriori strette, come pare Bailey si accinga a fare, con i tassi che, entro la fine dell’anno, dovrebbero arrivare al 2.25%.

Forse, sarebbe opportuno rassegnarsi all’inflazione per non sacrificare la crescita.

Swiss National Bank.

Mentre, come detto in apertura, le decisioni di Fed e BoE erano ampiamente previste, quella di Swiss National Bank è arrivata del tutto inaspettata.

Nel commentare la stretta di 50 punti base, la prima in 15 anni, che porta i tassi della Svizzera a -0.25%, Thomas Jordan, Presidente di SNB ha dichiarato: “A volte devi prendere decisioni difficili”.

Non è la prima volta che la banca centrale svizzera interviene senza preavviso e al di fuori delle riunioni programmate, comportamento che contraddice quanto la moderna teoria macroeconomica consiglierebbe di fare, ossia adottare una linea credibile e coerente.

E non è detto che non avvenga ancora, del resto, l’Istituzione stessa ha chiarito che “Non si occupa di forward guidance”, ossia di condizionare, con il proprio agire, le aspettative dei mercati sui futuri livelli dei tassi di interesse, i quali potrebbero presto uscire da territori negativi.

Banca Centrale Europea.

Riguardo la Banca Centrale Europea, in realtà, non c’è molto da dire, nel senso che la riunione emergenziale del board, atta a comunicare ai mercati la creazione di uno strumento ad-hoc, in grado di evitare il ripresentarsi di una nuova Crisi dei Debiti Sovrani, dopo la risalita in questi giorni degli spread, è un qualcosa di cui già si discute da tempo nelle segrete stanze di Francoforte sul Meno.

Il punto è che non si sa ancora nulla di concreto, e non sembra che Christine Lagarde abbia il carisma di chi l’ha preceduta: non sono bastate le sue parole per rassicurare i mercati.

Lo spread BTP-Bund nell’ultimo mese. Fonte: Il Sole 24 Ore

Bank of Japan.

La notizia principale del meeting di Bank of Japan è che il prossimo anno Haruhiko Kuroda si dimetterà dalla carica di Governatore dopo ben dieci anni alla guida della massima istituzione di politica monetaria del Sol Levante.

Kuroda ha inoltre ribadito il suo impegno ad una politica ultra-accomodante fino a quando il tasso di inflazione non raggiungerà il target del 2%, target che fino a pochi mesi, e per oltre un decennio, è sembrato assolutamente irraggiungibile.

A tal proposito, il principale indice dei prezzi al consumo del Paese, che esclude i prodotti alimentari freschi, è salito ad aprile al 2,1% rispetto all’anno precedente. Includendo i prodotti alimentari freschi, l’inflazione è stata del 2,5%.

Insomma, nessuna marcia indietro: Bank of Japan continua ad andare per la propria strada, agli antipodi con la tendenza globale di feroce contrasto alla spirale inflazionistica.

Lo yen è scivolato ai minimi da 24 anni rispetto al dollaro, mentre il rendimento del bond decennale giapponesi ha toccato il massimo degli ultimi sei anni, salendo allo 0,265% nelle prime contrattazioni e ponendolo al di sopra della politica di controllo della curva dei rendimenti (0.25%) della banca centrale.

L’interstardirsi con una politica così accomodante nasconde più di qualche insidia: l’inasprimento delle rispettive politiche monetarie degli altri banchieri centrali potrebbe esacerbare la caduta dello yen, con gli investitori che potrebbero trasferire il proprio denaro altrove, attratti da rendimenti maggiori.

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