E’ già trascorso un mese dall’inizio del maxi piano di quantitative easing istituito dal governatore della BCE, Mario Draghi, quel bazooka che ha l’ambizione di portarci una volta per tutte fuori da questa maledetta Crisi che ha messo più volte a repentaglio la stabilità dell’Eurozona; è giunto allora il momento di un primo sommario bilancio per comprendere quali effetti esso ha portato e sta portando.
Cominciamo subito con le liete notizie: molte Borse europee sono ai massimi di sempre, altre sono su livelli che non si osservavano dal 2009, sul fronte valutario, poi, l’euro ha toccato a metà Marzo i minimi da 13 anni sul dollaro, con una svalutazione da inizio anno dell’11% rispetto al biglietto verde; inoltre, anche dal punto di vista degli spread, i rendimenti dei titoli di Stato dei Paesi periferici sembrano essersi assestati a livelli rassicuranti. Questi risultati potranno così garantirci un miglioramento della nostra bilancia commerciale, una finanza pubblica più stabile e, nel complesso, miglioramenti dal punto di vista degli investimenti, con chiari segnali positivi dal punto di vista occupazionale.
Ciò che invece pare non aver subito alcun scossone è il tasso di inflazione, indice che, secondo la teoria keynesiana, deriva essenzialmente dalla domanda e ci segnala quindi un aumento dei consumi, ossia di una ritrovata fiducia da parte dei consumatori. I dati di Marzo ci parlano di uno -0,1% su base annua, ciò significa che l’Eurozona è ancora ben lontana dall’obiettivo imposto dal Trattato di Maastricht di un tasso di inflazione prossimo al 2%, motivo principale per il quale Draghi riuscì ad imporre il suo quantitative easing. Francamente era impensabile che 60 miliardi riuscissero a scuotere l’economia dell’Eurozona, soprattutto con le limitazioni a cui Draghi ha dovuto fa fronte, su tutte, quello dell’acquisto di titoli pubblici in proporzione del capitale della BCE posseduto da ciascuna banca centrale nazionale che ha portato i titoli tedeschi, quelli che meno necessitavano di tale intervento, ad essere quelli maggiormente acquistati. In molti ritengono che non basteranno 60 miliardi al mese – misura tra l’altro giunta in netto ritardo rispetto ad altre economia afflitte dal medesimo rischio deflazione, USA e Giappone su tutte – per riportare l’inflazione ad un livello prossimo al 2% e che senza un cambiamento di rotta verso una maggiore solidarietà tra i Paesi questo intervento potrebbe risultare addirittura deleterio.
Questo primo mese di QE evidenzia persino un paradosso: i tassi di alcuni titoli di Stato sono scesi così in basso da non poter più essere acquistati. Le regole del QE, infatti, impongono, tra le altre, che il rendimento dei titoli acquistati non sia inferiore di quello sui depositi stabilito dalla BCE, ossia -0,2%. Questa regola ha lo scopo di scoraggiare le banche dal parcheggiare la liquidità in eccesso presso la BCE e spronarle nell’immettere denaro nell’economia reale. Ad oggi, i titoli tedeschi a 2 e 3 anni non sono più acquistabili in quanto viaggiano su rendimenti rispettivamente del -0,267% e -0,233%. Discorso analogo per i rendimenti biennali dei titoli finlandesi e olandesi, rispettivamente al -0,23 e -0,213%, mentre l’Austria, per i titoli di pari durata, è vicinissima: -0,197%.
A questo punto direste “Beati loro”, in realtà, insomma, in quanto, per esempio, nel caso della Bundesbank, essa si si trova a dover concentrare i propri acquisti su titoli a più lunga scadenza, sia per la questione riportata poc’anzi dei rendimenti, sia perché l’economia tedesca, in ottima salute, non ha un grosso bisogno di nuove immissioni di nuovi titoli, col risultato che i pochi in circolazione finiscono per essere preda della speculazione, quindi ad avere prezzi alti ma bassi rendimenti. Tale situazione potrebbe ripercuotersi sulle assicurazioni tedesche causando crisi di illiquidità: difficile garantire i rendimenti promessi ai sottoscrittori delle polizze vita se i loro principali investimenti, ossia i titoli di Stato, non rendono come in passato, anzi, spesso hanno persino rendimenti negativi.
Dunque, riuscirà il quantitative easing di Draghi a riportare il tasso di inflazione al livello auspicato? Chissà, magari sì, potrebbero volerci però anni – lo stesso governatore, all’indomani della presentazione del piano, dichiarò che esso sarebbe proseguito, se necessario, anche oltre la scadenza fissata entro la fine del 2016 – si fa però, a mio avviso, sempre più chiara l’idea che una BCE costruita sul rispetto quasi sacro dei dogmi del monetarismo nel caso di un’unione di Paesi così diversi tra loro, benché uniti da una moneta comune, non sia stata la scelta più azzeccata, volendo usare un eufemismo. Il quantitative easing rappresenta un tentativo di metterci una pezza, quasi un’ammissione di essere caduti nella famosa trappola della liquidità di Keynes, ossia quella situazione nella quale la politica monetaria è impotente e che solo una politica fiscale espansiva potrebbe garantire la ripresa, una politica fiscale espansiva vera, non un piano concepito per non scontentare nessuno.