Sin dalla vittoria nella seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti hanno maturato una forte influenza sull’economia mondiale, in particolar modo attraverso la propria valuta, il dollaro.
Con l’avvento di Trump, però, tale influenza ha assunto il carattere della prepotenza, al punto da spingere alcuni leader mondiali, alleati e non, a chiedersi se non sia giunto il momento di costruire un’alternativa all’egemonia finanziaria statunitense.
E’ chiaro che, in un’economia estremamente globalizzata quale quella in cui viviamo, ridurre il peso del dollaro e del sistema finanziario statunitense è impresa assai complessa: oggigiorno, almeno la metà delle compravendite internazionali avviene in dollari, la moneta statunitense è usata globalmente come valuta di conto, riserva di valore e mezzo di scambio, essa rappresenta inoltre la valuta preferita dalle banche centrali e dal mercato dei capitali, quasi i due terzi delle emissioni globali di titoli e delle riserve in valuta estera.
In altre parole, gli Stati Uniti scandiscono il ritmo della finanza internazionale: quando i tassi di interesse si spostano o varia la propensione al rischio a Wall Street, i mercati globali si adeguano.
Agli Stati Uniti è inoltre fortemente legato il sistema SWIFT (Society for Worldwide Interbank Financial Telecommunication), un’infrastruttura telematica utilizzata dalle banche per scambiare messaggi finanziari in tutto il mondo (30 milioni al giorno) e la rete CHIPS (The Clearing House Interbank Payments System), una clearing house che processa 1.5 trilioni di dollari di transazioni al giorno, la quale, in collaborazione con la Fedwire, un sistema di trasferimento di fondi in tempo reale di grossa entità gestito dalle banche della Federal Reserve, contribuisce a formare la principale rete per pagamenti nazionali e internazionali in dollari statunitensi.
Capirete che voler rinunciare a questa struttura o esserne esclusi, come accade sempre più di frequente, vuol dire restare isolati dal mondo, poca differenza se la controparte sia un’azienda, una banca o un Paese intero.
Dall’11 settembre del 2001, le autorità statunitensi hanno spesso usato la modalità dell’esclusione per colpire i propri nemici o presunti tali: ad oggi sono oltre 30 i programmi sanzionatori verso altri Paesi, tra cui la Russia, l’Iran, il Venezuela, la Corea del Nord e, per un breve periodo, la Turchia.
A tale arsenale l’amministrazione Trump ha aggiunto dazi e sanzioni di vario genere, le più evidenti delle quali hanno colpito la cinese Huawei, accusata di spiare gli Stati Uniti attraverso la nuova rete 5G, di cui è leader mondiale.
Come se non bastasse, gli Stati Uniti hanno messo in piedi anche delle sanzioni “di secondo livello”, riservate a coloro i quali intessono relazioni commerciali con Paesi che hanno posto sulla loro blacklist.
Dopo il ritiro da parte degli Stati Uniti dall’accordo sul nucleare con l’Iran nel 2018, per esempio, le aziende europee, temendo ripercussioni, volarono via dal Paese, nonostante l’UE le avesse incoraggiate a restare lì.
Tutto ciò è chiaramente un abuso di potere, lo sostengono in primo luogo Russia e Cina, Putin in particolare ritiene che il dollaro venga usato come arma politica, ma si tratta di un’argomentazione condivisa anche da Regno Unito e Francia, storici alleate statunitensi, i quali cominciano a a temere le mosse dell’istrionico Trump.
Da qui l’idea di detronizzare il dollaro o almeno di provare a costruire un’alternativa.
Tale alternativa passa dall’utilizzo di valute e swap locali, un nuovo sistema di pagamento tra banche e un maggior utilizzo della valuta digitale. E’ su questi presupposti che Cina e Russia, in giugno, hanno cominciato a stipulare accordi bilaterali nelle proprie valute, mentre i leader di Iran, Malesia, Turchia e Qatar, in un recente summit, hanno proposto l’utilizzo di criptovalute da affiancare alle valute nazionali, all’oro e al baratto.
Nel frattempo, la Russia sta provando ad attuare dei correttivi, per esempio, designando entità sacrificabili come la Promsvyazbank PJSC per il commercio di armi ai Paesi che gli Stati Uniti definiscono canaglia, con lo scopo di fornire uno scudo a banche ben più grandi, quali Sberbank o VTB, alla minaccia di sanzioni americane. In realtà, già dal 2013, la Russia ha tagliato la propria quota di dollari detenuta a riserva per gli scambi internazionali da oltre il 40% all’attuale 24%. Anche il debito pubblico americano detenuto dalle banche russe è passato da oltre 100 miliardi di dollari a sotto i 10 e il ministro delle finanze ha inoltre annunciato la volontà di abbassare la quota di 125 miliardi di dollari del debito pubblico statunitense detenuta.
Elvira Nabiullina, Presidente della Banca Centrale russa, ritiene che questi movimenti siano in parte figli delle sanzioni americane seguite all’annessione della Crimea, in parte dal desiderio di diversificare il rischio, ritenendo che il mondo stia andando verso un sistema di multivalute.
E’ per tali ragioni che la Russia sta provando a de-dollarizzare il proprio debito pubblico: le nuove emissioni avvengono spesso in rubli o in euro e il Governo sta esplorando anche la possibilità di emettere bond denominati in yuan.
Anche le aziende russe hanno ridotto la propria esposizione estera per un valore di 260 miliardi di dollari dal 2014, di cui 200 denominati nella valuta statunitense.
Per converso, aziende e famiglie russe, quando si tratta di detenere attività internazionali, continuano a prediligere i dollari: sono infatti 80 i miliardi di dollari in più rispetto al 2014. Evidentemente, i rendimenti degli asset denominati nella valuta statunitense, maggiori rispetto a quelli in euro equivalenti, superano il rischio percepito delle sanzioni.
In linea generale, gli scambi di beni e servizi russi in dollari sono crollati dell’80% rispetto al 2013: allora, facendo riferimento a quelli con la Cina, erano pressoché tutti denominati in dollari, ora meno della metà. Anche nei confronti dell’India la situazione è profondamente cambiata, le transazioni avvengono per lo più in rubli ormai.
Energia e commodities in tali Paesi sono piuttosto lanciati verso la de-dollarizzazione, fa eccezione il greggio, dove fuggire dalla morsa del dollaro appare più complicato. Il problema principale in questo caso sta nella gestione del rischio, dato che il mercato dei derivati è per lo più denominato in dollari.
Ed è qui che l’euro, la seconda valuta più scambiata al mondo, potrebbe cominciare a recitare un ruolo importante, in fondo, il costo di switchare dai dollari ad un’altra valuta è modesto, basterebbe assumere un dipendente extra al reparto finanza, sicuramente meno costoso dei rischi valutari associati.
La Cina potrebbe fare lo stesso?
Il primo tentativo cinese di uscire dal cappio del dollaro, durante la crisi del 2007-09, fallì miseramente.
Sebbene il Governo cinese riuscì a far annettere nel paniere del Fondo Monetario Internazionale lo yuan, rendendolo, dunque, insieme a dollaro, euro, yen e sterlina, una valuta globale, e a stipulare oltre 35 accordi di scambio di valuta con banche centrali estere, al punto da convincere diversi osservatori sulle possibilità da parte della valuta cinese di sfidare ad armi pari il dollaro entro il 2020, il panico diffusosi in borsa nel 2015 costrinse il Governo cinese a rafforzare i controlli sui capitali e dunque a rivedere i propri piani egemonici, che si rivelarono di fatto del tutto inconsistenti.
La quota dello yuan nei pagamenti globale è rimasta stabile per diversi anni, un modesto 2% in valore.
Riguardo la costruzione di una propria infrastruttura, va detto che la Cina ne possiede già una, denominata CIPS ( Cross-Border Interbank Payment System).
Essa, lanciata nel 2015, sebbene abbia semplificato i pagamenti effettuati in yuan, ha avuto un utilizzo ancora piuttosto blando, basti pensare che nel 2018 ha processato meno di quanto il sistema SWIFT abbia fatto in un singolo giorno. Si vocifera della possibilità che Cina, India e altri stiano esplorando l’idea di un’alleanza per creare un’alternativa allo SWIFT, così come comincia a circolare la notizia sulla creazione di una criptovaluta tra i BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa).
Come detto in apertura, l’esigenza di creare un’alternativa al dollaro non è ad appannaggio soltanto dei Paesi storicamente rivali degli Stati Uniti.
Ursula von der Leyen, neo presidente della Commissione Europea, ha già dichiarato di voler rafforzare il ruolo internazionale dell’euro. Del resto, già il suo predecessore Juncker riteneva un’aberrazione la dominanza del dollaro, per esempio, nelle contrattazioni degli energetici, dato che che le importazioni dagli Stati Uniti rappresentavano soltanto il 2% sul totale.
Il piano iniziale prevede l’eliminazione della possibilità di pagare in dollari e di emettere quindi fatture denominate nella valuta statunitense, per poi potenziare l’Instex, la clearing house creata con scarso successo da Regno Unito, Francia e Germania, per commerciare con l’Iran.
Ovviamente, tutto ciò non può prescindere dalla realizzazione di un’unione bancaria e da una maggiore integrazione fiscale, questioni su cui l’Eurozona non è ancora riuscita a ricreare quella coesione e quella solidarietà della prima ora che le permetterebbero di tornare a recitare un ruolo di primo piano sullo scacchiere internazionale. Anche sulla creazione di una criptovaluta a livello europeo, siamo ad uno stadio embrionale.
Ad ogni modo, il vero test di valutazione di una valuta globale è lo scoppio di una crisi finanziaria.
Il dollaro, nel corso della crisi del 2008, sebbene essa si fosse originata proprio negli Stati Uniti, ha retto benissimo, anzi, ne è uscito rafforzato, a dimostrazione del fatto che nessun mercato dei capitali si avvicina a quello statunitense per liquidità e profondità.
Ciò nonostante, se Trump dovesse essere rieletto o chi dovesse succedergli continuerà ad utilizzare il dollaro come arma politica, il processo di detronizzazione del dollaro, per ora ancora in una fase iniziale, potrebbe subire una decisa accelerata.
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