La vicenda della Banca Popolare di Bari di cui si discute in questi giorni è solo l’ennesimo capitolo dell’infinita telenovela banche, un tema assai delicato da affrontare e sempre mal digerito dall’elettore medio, il quale mai si capacita del perché, da un lato, si destinino con faciltà ingenti risorse nel salvataggio di un istituto in difficoltà mentre, dall’altro, i soldi per “il popolo” sembrino mancare sempre.
Questo articolo, più che concentrarsi sul caso Popolare di Bari – troverete fiumi di righe su ogni quotidiano o sito di informazione – preferisce concentrarsi su come si sia potuti arrivare ancora una volta questo punto.
Con il decreto legge n. 3 del 24 gennaio 2015, definito “Investment Compact”, convertito nella legge n.33 il 24 marzo, il Governo Renzi dava il via a quella che fu definito dallo stesso allora Premier un “momento storico” per il sistema bancario italiano.
L’obiettivo di tale provvedimento era la riforma delle banche popolari, nello specifico, quelle con un attivo patrimoniale superiore agli 8 miliardi di euro, dunque 10 dei 70 istituti di questa particolare categoria presenti nel nostro Paese: Banco Popolare, Ubi Banca, Banca Popolare dell’Emilia Romagna (Bper), Banca Popolare di Milano (Bpm), Banca Popolare di Vicenza, Vento Banca, Banca popolare di Sondrio, Credito Valtellinese (Creval), Banca Popolare dell’Etruria e del Lazio e Banca Popolare di Bari.
Il cuore della riforma era rappresentato dall’abolizione del voto cosiddetto “capitario”, ossia quella particolare modalità secondo la quale ogni socio azionista può esprimere un voto al di là del numero di azioni che detiene, insomma, una sorta di “uno vale uno”.
Un criterio che già di per sé lascia perplessi: io azionista che posseggo una singola azione di quella determinata banca, ho lo stesso potere decisionale di chi ne detiene – mettiamo – mille?
Questa particolare regola rendeva di fatto la guida di tali banche non contendibile, in altri termini, le allontanava dal mercato, impedendo ad un’altra banca o un altro soggetto esterno di acquisirne il controllo, con tutti i pro ma soprattutto i contro che ne derivano.
Chi osteggiava tale riforma riteneva che esse, in virtù delle loro dimensioni, avrebbero potuto facilmente essere scalabili da grandi istituti, italiani o addirittura esteri, si sarebbe persa quella particolare relazione che tali banche avevano con il territorio, facendo di fatto venir meno la ratio della loro esistenza, chi la sosteneva, invece, era dell’idea che farle rientrare in processi di fusione o aggregazione ne avrebbe rafforzato la solidità, che in un’economia globalizzata probabilmente esse non avrebbero più ragione d’essere, a tal proposito l’allora Premier utilizzò quest’espressione: “L’Italia ha un sistema bancario serio, solido e sano ma che ha troppi banchieri e troppo poco credito”.
Quale delle due diverse fazioni abbia avuto ragione è storia, quella di Banche Popolari perennemente oggetto di scandali.
Il decreto stabiliva che entro 18 mesi, dunque entro luglio 2016, le banche popolari coinvolte avrebbero dovuto abbandonare il voto capitario e trasformarsi quindi in società per azioni.
Tale trasformazione è avvenuta per 8 dei 10 istituti coinvolti, all’appello mancano ancora Banca popolare di Sondrio e, appunto, Banca popolare di Bari.
Questa riforma, come ogni riforma che si rispetti, per di più in un Paese ingessato come il nostro, ha visto il susseguirsi di ricorsi: alcuni soci della Popolare di Sondrio si rivolsero infatti al Consiglio di Stato, il quale, sollevando dubbi di legittimità su due aspetti – la “necessità e urgenza” del provvedimento, insite dell’istituto del decreto legge, e l’aver leso i diritti dei soci-risparmiatori delle banche, in quanto il provvedimento fissava un tetto massimo per gli indennizzi spettanti a chi, possedendo quote delle vecchie popolari, decideva di farsi liquidare esercitando il diritto di recesso – chiese il parere alla Corte Costituzionale, congelando nel frattempo la riforma, permettendo così alle due Popolari, non ancora adeguatesi, di mantenere il proprio status.
Nel marzo del 2018 – dunque quasi due anni dopo l’iniziale termine previsto dal Governo – la Consulta si è espressa rigettando il ricorso.
Ciò però non ha impedito alle parti di proporre al Consiglio di Stato ulteriori cinque questioni, nuove e rilevanti, tanto da imporre, dato che non vi è una giurisprudenza consolidata sul tema, la rimessione della vicenda alla Corte di giustizia dell’Unione europea.
Esse attengono:
- La legittimità dell’imposizione di una soglia di attivo al di sopra della quale la banca popolare è obbligata a trasformarsi in società per azioni, in rapporto alla normativa europea in tema di aiuti di Stato.
- La possibilità di differire o limitare, anche per un tempo indeterminato, il rimborso delle azioni del socio recedente, in relazione alla disciplina in tema di concorrenza nel mercato interno e di libera circolazione di capitali.
- La disciplina sulla limitazioni al rimborso della quota del socio in caso di recesso, per evitare la possibile liquidazione della banca trasformata, in relazione alla regolamentazione degli aiuti di Stato.
- La facoltà di rinviare il rimborso per un periodo illimitato e di limitarne in tutto o in parte l’importo;
- L’art.10 del Regolamento delegato UE n. 241/2014 della Commissione, in relazione alla violazione del diritto di godere della proprietà dei beni di cui all’art.16 e dell’art.17 della Carta dei diritti fondamentali dell’ Unione europea.
In attesa che la Corte di giustizia dell’Unione europea si pronunci, pare ad inizio 2020, le misure cautelari già concesse dal Consiglio di Stato in merito alla trasformazione di tali banche in società per azioni sono rimaste in essere, e il Governo di turno è stato costretto all’ennesimo salvataggio notturno a spese della collettività, stando, ancora una volta ben attento all’uso delle parole – stavolta si parla di “Creazione di una Banca di Investimento per il Sud” – per non cadere sotto i colpi degli aizzatori di folle, quelli del “Salvano gli amici banchieri”, gli stessi che si opponevano alla direttiva sul bail-in, presenti tanto nella maggioranza quanto nell’opposizione.
E si ritorna al problema di sempre, quello di trovare un modo per spiegare all’opinione pubblica, con un linguaggio semplice, temi complessi, un modo che superi gli slogan e le argomentazioni semplicistiche della propaganda populista.
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