Questa Brexit s’ha da fare.
I risultati delle elezioni britanniche mettono la parola fine ad ogni ipotesi di un nuovo referendum: Boris Johnson, con 364 seggi, spazza via i laburisti di Jeremy Corbyn che con 202 seggi ottengono il peggior risultato dal 1935, quando a trionfare fu Margaret Thatcher.
Una sconfitta chiara, netta, che non ammette repliche.
Si dia allora – finalmente – inizio alla Brexit, si realizzi fino in fondo la volontà popolare: se dal risicato 52% del “Leave” del giugno del 2016 si evinceva un Paese profondamente spaccato, il netto risultato di queste elezioni è, a mio avviso, la migliore tra le peggiori notizie possibili.
Il balzo compiuto dalla sterlina in queste ore (+2,1% sul dollaro e +1,8% sull’euro) è infatti sintomatico di quanto l’incertezza abbia pesato in questi tre lunghi anni e, forse, anche contribuito a spazientire l’elettorato, voglioso di mettere fine a questa interminabile telenovela e poter finalmente guardare avanti.
C’è anche da dire che la proposta politica del laburista Corbyn, fatta di aumenti della spesa pubblica e pesanti nazionalizzazioni praticamente in ogni campo, dall’energia elettrica al gas, passando per poste e banda larga, demodé per quanto radicale oltre che probabilmente utopistica, era tutt’altro che in linea con i seguaci del “Remain”, quella finanza, troppo spesso demonizzata, che attraverso la City ha reso Londra uno dei centri finanziari più importanti del mondo.
Certo, tenere insieme la working class e gli odiati colletti bianchi era tutt’altro che impresa semplice, anche per questo Corbyn non si era mai sbilanciato fino in fondo sull’ipotesi “Remain”, invisa ai primi, frutto della pesante propaganda messa in atto in questi anni da Farage e company, preferendo la più timida posizione del secondo referendum. Le accuse di antisemitismo delle ultime settimane, poi, avevano aggravato la situazione già di per sé grave.
Tirando le somme, quella di Corbyn era un’armata brancaleone tenuta insieme da un leader eccessivamente rigido su certi aspetti, sulla visione economica per esempio, e quasi pavido su altri, come detto, nel sostenere con forza l’ipotesi “Remain”, ipotesi sostenuta con forza, tra gli altri, dal sinsaco di Londra Sadiq Khan; non è un caso, quindi, se, alla vigilia del voto, gli osservatori avevano concentrato la propria attenzione esclusivamente su quanto margine ci sarebbe stato tra i due leader, dando per scontata la vittoria di Johnson.
Il Primo Ministro britannico ha promesso che in caso di vittoria avrebbe realizzato la Brexit entro il 31 gennaio, vedremo se quel “Get Brexit done”, tanto ostentato in campagna elettorale, produrrà finalmente gli effetti voluti da lui e, a questo punto, dai sudditi di Sua Maestà.
L’auspicio è che l’Europa, nel rispetto della volontà emersa, prosegua la strada dell’intransigenza e della coesione mostrata nei confronti dell’ex Premier Theresa May, non facendo sconti.
Concludo quest’articolo facendo una considerazione che va al di là dell’esito del voto britannico.
L’idea che mi sono fatto in questi anni è che la globalizzazione abbia completamente disarmato la sinistra così come la conoscevamo, rendendo le idee che l’hanno caratterizzata nel corso del ‘900 non più praticabili, quasi anacronistiche. L’ostinarsi a volerle perseguirle o, quantomeno, nel promettere di realizzarle, non ha fatto altro che accrescere il malcontento tra i cittadini che, vedendo le proprie aspettative disattese, si rifuggono in una destra becera e sempre più xenofoba, spesso anche solo per dare una lezione ai leader verso cui avevano riposto la propria fiducia. Affinché si eviti il ritorno ad una delle pagine più brutte della storia dell’uomo, è necessario che la sinistra ripensi a se stessa, sviluppando ricette, soprattutto economiche, finalmente figlie dei nostri giorni, smettendola di inseguire un passato che mai più tornerà.
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