Il caso Spagna, quando austerity fa rima con serietà.

da | Giu 28, 2017 | Politica economica | 0 commenti

Mariano Rajoy, primo ministro spagnolo

Il primo ministro spagnolo, Mariano Rajoy.


In questo blog sono solito rivolgere la mia attenzione a Paesi remoti, poco inflazionati; credo che la diversità rappresenti un valore, che ci sia sempre qualcosa da apprendere da realtà profondamente distanti dalla nostra, tanto geograficamente, quanto culturalmente; non ha senso focalizzarsi su ciò che è simile a noi, sarebbe poco interessante, impareremmo poco.

Delle visualizzazioni, in fondo, non me n’è mai importato granché, preferisco, piuttosto, occuparmi di argomenti che suscitano il mio, e spero il vostro, interesse.

Stavolta però farò un’eccezione, vi parlerò della Spagna.

Lo so, dopo tali premesse, questa scelta vi lascia spiazzati, ma ho deciso di parlarvi della Spagna perché, seppur in modo diverso, presenta degli elementi interessanti rispetto agli altri Paesi del Mediterraneo, probabilmente da seguire.

Mi riferisco al suo approccio verso le tanto odiate politiche di austerity, delle quali essa rappresenta indubbiamente una storia di successo.

Alla parola austerità in questi anni si è spesso data una connotazione negativa, con questo articolo proverò a spiegarvi che, in realtà, se ad essa è associata la parola serietà, i risultati possono rivelarsi addirittura sorprendenti.

Partiamo dall’inizio.

Tra il 2000 ed il 2008 la Spagna cresce ad un ritmo medio del 3.5%, un risultato eccezionale, che spinge molti osservatori, tra cui il centrosinistra italiano, ad individuare l’allora Premier Zapatero, un modello da seguire.

Principale traino dell’economia spagnola è il mercato immobiliare, il quale si espande al tasso del 5% all’anno.

Tali risultati sono il frutto di bassi tassi di interesse – la Spagna ne beneficia quale membro dell’Eurozona – e condizioni fiscali favorevoli, tra cui la possibilità di detrarre il 15% delle rate del mutuo e la concessione di prestiti molto dilazionati nel tempo, fino addirittura a 50 anni.

A ciò va aggiunto una vigilanza della Banca Centrale Nazionale non ottimale e una sorta di lassismo in seno alle istituzioni spagnole, le quali erano disposte a chiudere più di un occhio in tema di rispetto delle normative paesaggistiche e di concessione di licenze edilizie.

Insomma, costruire era facile ed economico, tutti avrebbero potuto coltivare il sogno di avere una casa.

In queste condizioni, trovare un’occupazione nel settore edilizio era piuttosto facile, non occorrevano elevati titoli di studio né venivano richieste particolari esperienze.

Nel 2008, il fallimento di Lehman Brothers negli USA trascina giù l’intero sistema bancario europeo, non fa eccezione quello spagnolo, in particolar modo gli istituti di piccole e medie dimensioni, nei cui bilanci vi erano un gran numero di immobili che a quel punto rischiavano di restare invenduti, minando drasticamente le loro capacità di erogare nuovi prestiti.

Ciò determina il tracollo del settore edilizio spagnolo: i prezzi delle case precipitano e scoppia la bolla.

La crisi di quello che era stato il principale volano dell’economia spagnola finisce presto per ripercuotersi sull’intero sistema Paese.

Nel 2009 il Governo presieduto da Mariano Rajoy prova a correre ai ripari annunciando la nazionalizzazione di alcune delle banche colpite, è però tardi, il provvedimento risulta essere tardivo ed insufficiente.

L’intento del Premier spagnolo era quello di guadagnar tempo, fiducioso che da lì a poco la situazione sarebbe migliorata; gli investitori però non si fidano, i bonos, i titoli del debito pubblico spagnolo, continuano ad essere venduti, il differenziale di rendimento con i bund tedeschi, il cosiddetto spread, raggiunge la preoccupante quota 500, le borse crollano.




Non si può più aspettare, bisogna agire.

In quei mesi, negli occhi dei cittadini spagnoli, e in quelle di tutta l’Eurozona, ci sono ben impresse le terribili immagini che arrivano dalla Grecia, le riforme “lacrime e sangue” richieste ad Atene hanno ridotto alla fame la piccola economia ellenica, il timore di Rajoy era che richiedere aiuti in quell’istante avrebbe immediatamente gettato nel caos il Paese.

Per tale ragione, il Premier spagnolo fa un oculato uso delle parole, parla di richiesta di un “aiuto finanziario”, non di “salvataggio” come avvenuto in precedenza, oltre che Grecia, in Irlanda e Portogallo.

La prima tranche di aiuti non tarda ad arrivare: a fine 2012, giungono i primi 40 dei 100 miliardi richiesti che l’Esecutivo utilizza per ricapitalizzare Bankia, Novagalicia, CatalunyaCaixa e Banco de Valencia.

Come avvenuto negli altri casi precedenti, la Troika, ossia i rappresentanti della Commissione europea, della Banca Centrale europea e del Fondo Monetario Internazionale, in parole povere, l’insieme dei creditori ufficiali del Paese, a fronte dell’erogazione degli aiuti, richiede l’approvazione di un importante piano di riforme strutturali oltre che un consolidamento fiscale.

Le riforme sono tante e coinvolgono praticamente tutti i settori dell’economia spagnola: dal mercato del lavoro – con l’introduzione della flessibilità – imprese – con il taglio alla tassazione dal 30 al 25%, finanziato con tagli a detrazioni e deduzioni, e l’introduzione di sussidi per le startup (+70mila unità) – pubblica amministrazione, concorrenza e Università, insomma, si prova a ripercorrere i passi che portarono nel 2003 la Germania da malato a locomotiva d’Europa.

Il consolidamento fiscale invece si concentra essenzialmente sul lato delle uscite: la spesa pubblica scende infatti di quasi 5 punti percentuali (15 miliardi) rispetto ad un aumento delle entrate dell’1% – innalzamento dell’IVA ordinaria dal 18 al 21% – il contrario di quanto fatto dal Governo dei tecnici in Italia nello stesso periodo, il quale preferì aumenti della tassazione e un innalzamento dell’età pensionabile “Riforma Fornero” – pur previsto dal Governo spagnolo ma più progressivo – ad un deciso taglio della spesa pubblica, poi affidato ai vari commissari della Spending Review succedutisi, con esiti deludenti, negli anni successivi.

Nel giro di 18 mesi, per la precisione il 23 gennaio 2014, la Spagna esce dal piano d’aiuti.

Dei 100 miliardi richiesti la Spagna ne utilizzerà solo 39 mentre nel 2015 fa registrare un tasso di crescita del PIL del 3.2%, quasi il doppio della media dell’area euro, ritornando ai livelli di ricchezza pro-capite pre-crisi.

Nel 2016 anche il rapporto debito pubblico/PIL comincia a scendere (da 100.4% al 98%), altro punto critico del nostro Paese, del quale si discute tanto senza però ottenere risultati tangibili.

Un Paese ristrutturato è un Paese attraente: l’annuale rapporto della Banca Mondiale denominato Doing Business, il quale misura la facilità con cui è possibile intraprendere un’attività di impresa in un Paese, vede la Spagna risalire di una posizione (dalla 32esima alla 33esima) rispetto alle 6 perse dall’Italia (da 44esima a 50esima).*

Si spiegano così gli investimenti nel settore automobilistico per un ammontare di 5 miliardi di euro nel biennio 2014-15 che hanno portato la produzione di auto su suolo spagnolo a 2 milioni di unità contro le 600mila in Italia, secondo Paese nell’area euro dopo la Germania.




Non sono però tutte rose e fiori.

Le riforme hanno comportato pesanti costi sociali, su tutti l’elevato tasso di disoccupazione che, seppur stia facendo registrare un’inversione di tendenza, resta su livelli molto alti, sopra il 20%.

Ancor più difficile la situazione dei giovani spagnoli il cui tasso di disoccupazione è oltre il 40%: molti di essi, attratti dall’ascesa del settore immobiliare, avevano preferito lasciare agli studi, ora si ritrovano disoccupati e senza titoli, né qualifiche, non sarà facile ricollocarli senza l’introduzione di efficaci politiche attive.

Insomma, un serio piano di riforme strutturali, un imponente taglio delle spese improduttive, una riduzione della tassazione, buone relazioni industriali, capitali provenienti dall’estero e investimenti in in ricerca, connessi allo sfruttamento di condizioni esogene quali il crollo del prezzo del petrolio, i bassi tassi di interesse e l’euro debole garantiti dal quantitative easing, nonché il boom del turismo frutto anche delle primavere arabe che ha praticamente azzerato i viaggi verso quelle zone, hanno rimesso in moto l’economia spagnola, quando accadrà per l’Italia?

 

Concludo con il mio solito appello, di vitale importanza al fine di far crescere questo blog: se avete trovato quest’articolo interessante, vi invito a condividerlo sui social e a mettere un like alla mia pagina Facebook; inoltre, se non volete perdervi i prossimi articoli, il consiglio è di iscrivervi al blog inserendo la vostra mail, riceverete un messaggio ad ogni nuova pubblicazione, grazie.

 

* confronti con i rapporti antecedenti al 2016 non sono possibili dato che è leggermente cambiata la metodologia di osservazione, ne parlavo nell’articolo “Doing Business 2016: facciamo chiarezza sull’Italia”.

SalvaSalvaSalvaSalva

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